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I costi senza benefici del governo No Tav

Claudio Cerasa

Il no alla Tav non è questione di numeri ma di visione del mondo. Essere complici dei professionisti del no significa scommettere sulla decrescita, sul complottismo, sullo sfascio. Appello per ribellarsi contro l’oscurantismo sovranista

Sarebbe tutto molto più semplice e forse persino più rassicurante se fosse solo una questione di efficienza, se fosse solo una questione di numeri, se fosse solo una questione di convenienza, se fosse solo una questione di semplice risparmio. Sarebbe tutto più semplice se dietro al no del Movimento 5 stelle, e del governo, all’Alta velocità Torino-Lione ci fosse solo un tema legato alla differenza tra i benefici e i costi. Sarebbe tutto più semplice se fosse così e se fosse questo il vero tema della commissione voluta dal ministro Toninelli sulla Torino-Lione. Ma purtroppo le ragioni che spingono i principali azionisti del governo dello sfascio a fabbricare da mesi fake news sull’alta velocità nascono da qualcosa che è molto più grave e più pericolosa di una semplice analisi su costi e benefici. Non è una questione di numeri: è una questione di ideologia, è una questione di visione, è una questione del mondo che si ha in mente per costruire il futuro dei nostri figli.

 

Il no del Movimento 5 stelle all’alta velocità, e la scelta della Lega di Matteo Salvini di considerare il sì all’alta velocità come un valore negoziabile, sono un no all’interno del quale si condensano buona parte degli irrisolti problemi del nostro paese.

 

C’è la legittimazione della politica del no come collante identitario di una forza politica. C’è la tendenza a trasformare la chiusura in un modello culturale necessario per proteggersi dalla globalizzazione. C’è la propensione a trasformare l’isolamento in una virtù e non in un vizio di una grande economia. C’è la propensione a trasformare l’immobilismo nell’unica forma di legalità consentita. C’è la tentazione di fare delle grandi opere potenziali occasioni di corruzione e non potenziali occasioni per alimentare la crescita. C’è l’incapacità di considerare l’internazionalizzazione di un paese come una fonte di opportunità e non come una fonte di problemi. C’è la volontà di affermare il principio che la globalizzazione va governata non dando la possibilità a chi è piccolo di diventare grande ma facendo di tutto per far restare piccoli, anche chi avrebbe voglia di diventare più grande. C’è tutto questo, c’è la dottrina della decrescita infelice, c’è l’ignoranza di chi non capisce l’importanza che avrebbe l’entrata in funzione di un’Alta velocità che darebbe la possibilità all’Italia di avvicinarsi ancora di più all’Europa, collegando Milano a Parigi in 4 ore e mezza, a Barcellona in 6 ore, a Londra in 7, con gli ovvi impatti che avrebbe tutto ciò per tutta la filiera turistica. C’è la stoltezza di chi non capisce che le grandi opere sono leve per generare occupazione, per far aumentare la qualità dello sviluppo di un paese, per garantire il benessere delle prossime generazioni. C’è la miopia di chi considera il futuro come un luogo da incubo. C’è l’incompetenza di chi non capisce che per la settima economia più grande del mondo non è secondario ma è vitale lavorare all’integrazione economica con un continente come l’Europa da cui dipende il 60 per cento del nostro export e del nostro import.

 

C’è tutto questo, naturalmente, ma nell’ideologia infelice della decrescita mortale, con molti costi e zero benefici, c’è anche un altro punto che spesso viene dimenticato dai professionisti della paura, che nascondono le proprie ideologie tetre dietro numeri apparentemente neutrali. Un punto molto importante spiegato per tempo da un grande docente di economia all’Università di Berkeley, Enrico Moretti, in un libro magnifico pubblicato anni fa da Mondadori, “La nuova geografia del lavoro”. In quel saggio Moretti spiega perché l’Italia per non diventare un insieme di città e distretti industriali in declino lento ma irreversibile ha la necessità assoluta non di isolarsi ma di aprirsi ancora di più all’Europa. Moretti ricorda che nella nuova economia dell’innovazione il successo di un’azienda o di una città non dipende soltanto dalla qualità dei suoi lavoratori, ma anche dall’ecosistema produttivo in cui è inserita e ricorda un elemento importante che non troverà mai spazio in nessuna analisi su costi e benefici di una grande opera. “Parte della sperequazione di reddito tra i lavoratori altamente specializzati e quelli generici – scrive Moretti – è oggi riconducibile a differenze nella propensione a muoversi: se le persone con un grado di istruzione meno elevato avessero maggiore disponibilità a trasferirsi in città con occasioni di lavoro più consistenti, l’ineguaglianza di reddito si ridurrebbe notevolmente. Il fatto di essere meno mobili rende i lavoratori meno istruiti più esposti alla disoccupazione”.

 

Essere contro le grandi opere significa anche questo. Significa essere a favore della decrescita. Significa non fare di tutto per trasformare il futuro in un luogo di grande opportunità. Il futuro dell’Italia nel mondo, la sua idea di Europa, di sviluppo, di crescita, di lavoro, di industria, di economia dipende anche dall’Alta velocità. Chiudersi non vuol dire proteggersi, vuol dire isolarsi, vuol dire fuggire dal mondo, vuol dire combattere contro la realtà. E chi sceglie di essere complice degli oscurantisti sceglie semplicemente di essere complice dello sfascio dell’Italia. E’ il momento di un manifesto per la crescita, di un manifesto per la Tav, di un manifesto contro i professionisti del no. Un manifesto contro chi sceglie di barattare il futuro del paese per uno zero virgola nei sondaggi. Per firmarlo, se volete, scrivete qui: [email protected].

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.