Matteo Salvini ospite a Porta a Porta (foto LaPresse)

Il bluff sull'autonomia è un guaio nei rapporti tra Salvini e le sue regioni

Valerio Valentini

In Cdm l’intesa, con trucco. Lo scetticismo del Carroccio: “Più risorse al Nord? Magari”. La cautela leghista per non spaventare il Sud e il M5s, che medita il sabotaggio

Roma. I leghisti che davvero ci sperano ancora, al sentir pronunciare la parola fatidica, si stringono nelle spalle. “Secessione? Magari”. Delusione che rivela, evidentemente, che le antiche ambizioni indipendentiste non sono affatto state deposte; e al contempo, però, dice di come l’intesa che ieri è stata licenziata dal Consiglio dei ministri resta ancora più la testimonianza di una velleità, che non la messa in pratica di un piano. A saperlo meglio di tutti è Luca Zaia, che ora fa buon viso a cattivo gioco ed esulta per quello che comunque è un risultato significativo. E però il governatore del Veneto, e insieme a lui il più tiepido lombardo Attilio Fontana (discorso a parte, poi, per l’emiliano Stefano Bonaccini), deve senz’altro ricordare come il sogno iniziale era ben altro, e coincideva col trattenimento sul territorio dei nove decimi delle tasse. Ché in fondo, al di là del folklore, è di quello che si parla, quando si discute di autonomia.

 

Ebbene, dovranno accontentarsi di molto meno, almeno per ora, gli autonomisti del nord. L’intesa non prevede, in questa prima fase, alcuna ridefinizione dei trasferimenti dallo stato alle regioni. Si procederà invece sulla base del cosiddetto “costo storico”: in sostanza, Veneto, Lombardia ed Emilia potranno trattenere sul proprio territorio quei soldi che lo stato oggi spende per garantire l’erogazione dei vari servizi oggetto di richiesta di autonomia. E di certo Fontana, Zaia e Bonaccini non si vedranno arrivare più soldi di quelli che ricevono (il Mef, mercoledì, ha ottenuto che nell’intesa venisse inserita una sorta di clausola di salvaguardia in base alla quale “dall’applicazione della presente intesa non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”) né risulteranno avvantaggiati, al momento, rispetto ai loro colleghi del Sud.

    

Anzi, se si prendono come riferimento i dati della Ragioneria dello stato sulla spesa statale regionalizzata, a livello pro capite, si nota come le meno avvantaggiate, al momento, siano proprio Lombardia (2.733 euro per abitante), Veneto (2.946) ed Emilia (3.070), mentre dal capo opposto della graduatoria – a parte le regioni a statuto speciale su cui, stranamente, si dice ben poco in questo gran parlare di squilibri – ci siano l’Abruzzo (4.474), il Molise (4.749) e il Lazio (5.742). Per individuare i costi storici verrà costituito un comitato paritetico tra lo stato e ciascuna delle regioni autonomiste, e si terrà conto, sostanzialmente, del bilancio statale: un’operazione che al ministero degli Affari regionali ritengono abbastanza agevole, e che invece per Banca d’Italia potrebbe richiedere sforzi non banali.

    

Tutto di fretta, tutto pasticciato, tutto messo a punto nelle segrete stanze esautorando di fatto il Parlamento: questa è l’accusa dei critici. Ora, il processo fino a oggi non ha certo brillato per trasparenza: le trattative sono avvenute in modo riservato, e nel generale disinteresse dei media. E però, l’entrata in vigore dell’accordo non sarà affatto immediata. L’intesa licenziata dal governo andrà trasformata in un disegno di legge che dovrà essere approvato a maggioranza assoluta dal Parlamento. Testo blindato? Non proprio. L’articolo 116 della Costituzione dice che la legge “è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo stato e la regione interessata”. Sulla base, dunque: una formulazione che lascia in verità margini di correzione. Dopodiché, ci sarà bisogno di un decreto firmato dal presidente del Consiglio, al termine dei lavori del comitato stato-regioni. Nulla, insomma, sarà immediato, e neppure scontato.

  

L’intesa raggiunta tra il ministro per gli Affari Regionali Erika Stefani, il Mef e i tre governatori, prevede poi un periodo di transizione verso la definizione dei cosiddetti “fabbisogni standard”: quanto, cioè, ciascuna regione avrà necessità di spendere per erogare un certo servizio. A rilevare questi fabbisogni sarà una commissione paritetica che coinvolgerà da un lato il governo e dall’altro tutte le regioni (dunque non solo quelle che richiedono l’autonomia) e che dovrà essere composta entro un anno dall’entrata in vigore dell’accordo. Sarà qui la vera sfida autonomista: perché solo in questo passaggio le regioni del Nord potrebbero ottenere qualche trasferimento in più, per un principio di vasi comunicanti. Ed è qui che starebbe, secondo l’economista meridionalista Gianfranco Viesti, il rischio della “secessione dei ricchi”. Un timore che si basa, sostanzialmente, sull’assunto (ragionevole, in effetti) per cui “rapportare il finanziamento dei servizi al gettito fiscale significa stabilire” che i diritti di cittadinanza “possono essere diversi fra i cittadini italiani; maggiori laddove il reddito pro-capite è più alto”. Al momento questa paura risulta infondata, dato che – garantiscono al ministero per gli Affari regionali verificheremo poi quando ci saranno i testi definitivi – la capacità fiscale non rientra più tra le variabili di cui si terrà conto per rilevare i fabbisogni standard. Questo parametro era citato, in effetti, in un passaggio un po’ criptico del testo delle cosiddette “preintese”, quelle cioè firmate il 28 febbraio 2018 dai tre governatori autonomisti e dall’allora sottosegretario Gianclaudio Bressa al tramonto del governo Gentiloni. Zaia e Fontana hanno provato a mantenerle, ma il Mef si sarebbe opposto.

   

In ogni caso, è l’approdo stesso alla fase dei costi standard che viene considerata assai incerta. Almeno a giudicare dallo scetticismo con cui ne parlano, riservatamente, i leghisti che lavorano ai dossier economici. “Ai costi standard sarà dura arrivarci”, sussurrano, consci sia delle difficoltà tecniche nella definizione delle risorse sia delle prevedibili resistente politiche dei partiti a tradizione meridionalista (primo fra tutti il M5s, i cui ministri definiscono i costi standard “un miraggio”). E forse anche per questo i due sottosegretari al Mef Massimo Garavaglia e Massimo Bitonci hanno convenuto d’inserire, nel testo dell’intesa, una postilla che dovrebbe scongiurare il rischio di inconcludenti lungaggini: qualora infatti, decorsi tre anni dall’entrata in vigore del dpcm, non siano stati adottati i fabbisogni standard, “l’ammontare di risorse non potrà essere inferiore al valore medio nazionale pro capite della spesa statale per l’esercizio delle stesse”.

 

Il che, per le regioni del Nord, risulterebbe perfino più vantaggioso rispetto ai costi standard. E non a caso è proprio su quel comma (e non solo su quello) che il M5s, non proprio entusiasmi per questa autonomia, è pronto a dare battaglia. E insomma, la strada verso la secessione, ammesso che sia stata davvero inaugurata, è ancora lunga e accidentata. “Noi vogliamo l’indipendenza della Padania”, garantiva, nel 2012, il neo segretario lombardo della Lega, già pronto a dare la scalata al partito nazionale. “Ma dobbiamo chiederci come arrivarci, dopo vent’anni che sbattiamo contro il muro. Se non ci arriviamo facendo la strada dritta, è meglio fare qualche curva”. Era Matteo Salvini, a parlare così. Ma non è detto che sia quella imboccata ieri in cdm la svolta buona.

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