Foto Imagoeconomica

Una corona per Mara Carfagna

Guido Vitiello

Le regole, il metodo antibulli, l’economia, l’immigrazione. Esiste una destra alternativa a quella di Salvini. Pazza chiacchierata con la vicepresidente della Camera

La drammaturgia politica non è poi così diversa da quella del cinema o della tv. Pensate ai vecchi noir degli anni d’oro di Hollywood: quando il divo era in scena, nessuno doveva fargli ombra. Per questo il comprimario doveva essere più brutto, più calvo e possibilmente più basso – cosa che riusciva facile con il metro e novanta di Gary Cooper, un po’ meno con il metro e settantatré di Humphrey Bogart. Tutt’al più, a tener testa al tenebroso eroe poteva essere una donna più scaltra e più astuta di lui. Ma pensate pure ai vecchi telefilm di Batman: il fido Robin lo affiancava con la sua tutina colorata, innocuo come un buffo Papageno; e i suoi antagonisti, giullari e pinguini, erano tutti un po’ grotteschi. Solo a cospetto di Cat Woman il supereroe perdeva la sua sicumera – del resto, nella catena alimentare il gatto prevale sul pipistrello. Ecco, se Salvini vuole fare Batman – il Batman fieramente panzone del telefilm con Adam West – e Di Maio è oramai il suo Robin, come ha suggerito Francesco Cundari, l’antica arte del racconto prescrive che a frenare le sue intemperanze superomistiche debba essere una donna dal polso fermo e dal carattere fiero.

  

“Ma se una donna di destra non fa rispettare le regole, che donna di destra è? Il Parlamento non è un circo dove si entra con la ruspa”

“Berlusconi non ha bisogno di un nemico per accumulare consensi. Capisce gli umori delle persone. E non gioca mai a dividere”

Lo schema narrativo, che qualcuno si spingerebbe perfino a chiamare archetipico, può funzionare. Ne abbiamo avuto un’anteprima a ottobre, alla Camera dei deputati. Mara Carfagna, che presiedeva l’Aula durante il question time di Salvini sul caso Diciotti, lo ha richiamato all’ordine dallo scranno più alto, con vista sulla chierica (la posizione degli attori in scena non è certo questione secondaria): “Ministro, lei è libero di parlare ma non di attaccare il Parlamento. Le sembrerà strano ma le regole valgono anche per lei”. Qualche fervente opinionista salviniano, nell’ansia di lisciare il vello al maschio dominante del branco, diede a intendere che la vicepresidente della Camera andava ormai considerata una quinta colonna dell’opposizione. Lei, nel rievocare quell’episodio, è ancora un po’ incredula: “Ma se una donna di destra non fa rispettare le regole, che donna di destra è?”, mi dice all’inizio di una lunga conversazione nel suo ufficio a Montecitorio. “In quel momento rappresentavo la Camera, quindi ho fatto semplicemente il mio dovere. Il Parlamento non è un circo dove si entra con la ruspa o con la felpa, è il luogo dove si realizza la sovranità popolare. Mi dispiace avergli rovinato la diretta social, ma in quel momento non si parla ai propri fan, si parla al paese. E le regole esistono proprio per consentire ai cittadini di assistere all’unico momento di interlocuzione diretta che i rappresentanti del popolo hanno con il governo. Avrei fatto lo stesso con qualunque ministro”. E su questo non c’è dubbio. Eppure in quella nota di sarcasmo appena accennato – “le sembrerà strano ma…” – c’era qualcosa di più. Era una variazione su un registro che Mara Carfagna adotta sempre più spesso quando si rivolge a Salvini: il registro di chi debba rimettere in riga un bullo, spaccone, petulante e sotto sotto anche un po’ bambinesco. E’ una mia impressione? “Credo solo che esistano confini che non possono essere superati”.

 

L’applicazione più recente del metodo antibulli di Mara Carfagna si è vista nel caso di Stefania Prestigiacomo, la parlamentare di Forza Italia salita a bordo della Sea Watch insieme a Riccardo Magi di +Europa e a Nicola Fratoianni di LeU. Salvini li ha accusati tutti e tre – ma la Prestigiacomo con un supplemento di stizza – di violare le leggi dello Stato e favorire l’immigrazione clandestina; La Verità, in una di quelle prime pagine balorde che un giorno collezioneremo come le false copertine del Male, gli è corsa subito dietro titolando: “Forza Italia soccorre i migranti”. Che sarebbe oltretutto un gran bel complimento, se solo fosse vero. A rigore, due sole voci nel partito berlusconiano si sono levate a difesa della Prestigiacomo, con toni e intendimenti diversi: una è quella di Gianfranco Micciché, l’altra è quella di Mara Carfagna. “Anche in quel caso, ho ritenuto di dover difendere le prerogative parlamentari. Perché i tre deputati avevano il diritto e il dovere di ispezionare quell’imbarcazione. E’ pericolosa l’idea di trasformare in reato ciò che al governo non piace”. Sulla Sea Watch però, ci tiene a ribadirlo, lei non sarebbe salita, sicuramente mai con due parlamentari di sinistra, per non generare confusione nell’elettorato di Forza Italia. “Ma ho provato comunque a non inseguire il governo su quel copione, perché distrae l’attenzione dai veri problemi dell’immigrazione incontrollata, che non sono certo legati a quarantasette migranti su una nave. Io li avrei fatti sbarcare subito. Magari non hanno diritto di restare nel nostro paese e andranno rimpatriati, però non puoi tenerli in ostaggio, e non puoi dire ‘la pacchia è finita’ a persone che portano sulla pelle i segni delle torture, delle detenzioni, dei maltrattamenti. Non possiamo trattarli come bestie, altrimenti ci trasformiamo in bestie. Si può essere severi restando umani. Fare la faccia feroce con il più piccolo del cortile è anche un po’ da codardi. Non puoi rendere prigioniere le vittime del traffico di esseri umani che vuoi smantellare. Uno Stato forte ma non crudele, piuttosto, fa la faccia feroce con le reti criminali che si nutrono di quella manovalanza. Eppure non ho visto la stessa determinazione e la stessa aggressività nei confronti delle grandi reti di malaffare, del racket della prostituzione, dello spaccio, del commercio abusivo, del caporalato, tutti fenomeni che rappresentano il polmone dell’immigrazione clandestina”.

 

Però quel decreto che per ironia antifrastica è chiamato “decreto sicurezza” è stato approvato anche con i voti di Forza Italia. Ed è una gigantesca incubatrice di illegalità, una macchina progettata per produrre emergenze a ciclo continuo così da proporsi, poi, come gli unici in grado di ristabilire l’ordine. Restando ai miei esempi cinematografici, mi ricorda la joint venture tra il bambino che spacca le finestre a sassate e il vetraio che arriva subito dopo a ripararle, nel “Monello” di Chaplin. Spingere gli immigrati verso l’illegalità e poi trattarli da criminali. Perché votarlo, allora? “Lo abbiamo votato perché condividevamo lo spirito di quel provvedimento, e cioè riorganizzare il sistema dell’accoglienza per contrastare sprechi e ruberie, e per ridurre anche i costi a carico dello Stato. Però le leggi si possono applicare in tanti modi. E’ giusto smantellare i Cara, che sono diventati centri d’illegalità, ma da nessuna parte c’era scritto che le persone sarebbero state caricate sui pullman o sui treni senza che sapessero dove andare”. Tutto questo per Salvini non conta, basta poter ripetere ad libitum la scena madre – finora piuttosto malriuscita, malgrado i turni sfiancanti delle ignare comparse a bordo, donne e bambini inclusi – del supereroe che ferma le navi con i suoi muscoli d’acciaio. Mara Carfagna ha una visione diversa del problema, se non negli intenti quanto meno nei metodi: “Dobbiamo difendere i confini perché la paura dei cittadini è stata alimentata non soltanto da chi ha soffiato sul fuoco ma anche da chi non è stato in grado di gestire il fenomeno di un’immigrazione che, se non controllata, viene percepita come un’invasione. Però oggi il problema non sono le poche decine di persone che arrivano – e non faccio fatica a riconoscere che gli sbarchi sono stati ridotti grazie anche a questo governo. Il problema riguarda le centinaia di migliaia di immigrati irregolari che sono già sul nostro territorio, e che sono qui come fantasmi. E’ un tema di cui nessuno vuole occuparsi, perché affrontarlo senza fare propaganda rischia di essere impopolare”. Già. Così impopolare che ben pochi sono disposti a pronunciare a voce alta un’ovvietà: rimpatriarli è impossibile (sempre ammesso che sia giusto o auspicabile); e allora, foss’anche solo per ragioni di sicurezza, meglio integrarli che disintegrarli. O no? “Certo, è impossibile pensare di rimpatriarli tutti. Ma diventa ancora più difficile se litighi con tutti, se fai asse con quei paesi in Europa che si sono opposti alla ridistribuzione dei migranti, se ti scontri con la Tunisia, con Malta e con tutti i paesi europei con cui invece dovresti costruire una rete di solidarietà”.

 

Mara Carfagna forse non sottoscriverebbe, ma a sentirla parlare ho l’impressione che la politica migratoria sia l’unico ambito in cui la sua idea di destra ha qualche tenue punto di contatto con l’idea di destra di Salvini. “Non vorrei sembrare una sabotatrice, ma in questo governo io vedo ben poco di destra, perlomeno della destra liberale che ho in mente. Non la vedo, per esempio, nei provvedimenti economici: nel reddito di cittadinanza, nel decreto dignità, nel blocco delle grandi infrastrutture a cominciare dalla Tav, nel blocco delle estrazioni petrolifere nei nostri mari, nella minaccia continua di nazionalizzazioni. Non la vedo neppure nella politica estera, nella gestione pericolosa delle nostre truppe in Afghanistan, nell’appoggio imbarazzante al governo venezuelano di Maduro, nella fronda in Europa con l’Ungheria e la Polonia. E non la vedo nelle politiche sociali, a partire dal ddl Pillon. Anche sulla famiglia, una destra seria prenderebbe misure diverse. Per esempio, asili nido gratis e libri di testo gratis per le donne che accettano la sfida di fare il secondo figlio”. Qualcosa di meno medievale del pezzo di terra da coltivare, insomma. E allora con che destra abbiamo a che fare? Non è una destra liberale, su questo non ci piove. Vogliamo chiamarla illiberale? “Sì, ma io non vedo un pericolo di autoritarismo, vedo piuttosto un pericolo di cialtroneria”. Ecco, la deriva cialtrona. Ne sarei quasi rassicurato, ma ho il forte sospetto che autoritarismo e cialtroneria non solo non si escludano, ma si implichino vicendevolmente. A volte i cialtroni diventano autoritari per nascondere il fatto che sono cialtroni – e allora cercano di allungare le mani sugli organismi di controllo, sugli enti indipendenti, occupano militarmente l’informazione pubblica, minacciano ritorsioni sui giornali sgraditi o sui tecnici dei ministeri. Oppure sono così spettacolarmente cialtroni, e generano un tale volume di caos, da attirarsi in risposta un uomo d’ordine in grado di metter fine alla ricreazione con metodi spicci: se Annibale marciasse su Roma in sella a un elefante per liberarci dalla giunta Raggi, sarebbe accolto da ali di folla festanti. Ma accantoniamo questi sogni mostruosamente proibiti e passiamo in rassegna le aree funestate dalla deriva cialtrona.

 

L’economia, prima di tutto. “La Lega gestisce dicasteri economici importanti – penso per esempio agli Affari europei fino a pochi giorni fa, agli Affari regionali, all’Agricoltura e al Turismo – ma in buona sostanza ha accettato di appaltare ai Cinque stelle la politica economica. Una politica di scelte folli, che ci portano alla recessione, sfasciano il nostro sistema economico e produttivo, o addirittura ci fanno tornare indietro nel tempo, come la chiusura domenicale dei negozi. Pensiamo al decreto dignità: anziché creare posti di lavoro, li brucia. Lo dicono i dati, ma sarebbe bastato il buon senso: se aumenti i costi e gli oneri sui rinnovi contrattuali è chiaro che l’imprenditore si sente scoraggiato dal rinnovare i contratti a termine. Con la legge di Bilancio che hanno approvato, poi, hanno buttato dalla finestra miliardi di euro, vanificando i sacrifici che gli italiani hanno fatto in tutti questi anni. Quegli stessi soldi potevano essere utilizzati, per esempio, per creare una grande No Tax Area nel meridione e azzerare l’Ires sulle imprese del sud, così da incoraggiare gli investimenti in una zona del paese dove il livello di sottoccupazione è insopportabile. Qualcuno potrebbe dire che è un aiuto di Stato, ma la normativa europea consente in alcuni casi che possa esserci una sorta di aiuto di Stato alle aree economicamente svantaggiate. E mi sembra più sensato aprire una vertenza in Europa su una misura di questo genere che sul 2,04 di deficit. Sarebbe una misura rivoluzionaria, una svolta storica per il Mezzogiorno. E poi c’è molto da fare sugli stipendi: quando un lavoratore riceve la sua busta paga si accorge di quanto costa all’azienda, e capisce che il problema non è l’imprenditore cattivo che lo paga poco, ma è lo Stato che gli chiede troppo per offrirgli in cambio servizi non all’altezza delle somme pagate. Lasciare qualche soldo in più in tasca ai lavoratori è un modo per incentivare il lavoro e i consumi e per far ripartire l’economia”.

 

Il mio semianalfabetismo economico mi costringe, in questa parte della conversazione, al ruolo defilato dello stenografo. Ma sciolgo volentieri il voto del silenzio quando ci avviciniamo al capitolo che da un quarto di secolo mi guasta il sonno e la digestione: la giustizia. Avevo accettato da tempo, seppur di contraggenio, che noi garantisti avessimo perso la guerra. Ma che i vincitori potessero infierire così crudelmente sul corpo morto del diritto, beh, questo non potevo prevederlo. Mara Carfagna dice ogni male dell’abolizione della prescrizione che ci condanna a processi eterni, e poi elenca diligentemente i capisaldi del programma di Forza Italia, a cominciare dalla separazione delle carriere – ma alle mie orecchie disilluse tutto questo suona ormai come un quaderno di rimpianti. Su quel fronte siamo tutti reduci malinconici, e oggi ci troviamo stritolati tra il partito dei magistrati (il M5s) e il partito dei poliziotti (la Lega), entrambi impegnati in una escalation di follia inquisitoria, come si è visto nel caso di Cesare Battisti: “Come donna di destra, per anni ho sperato che Battisti venisse assicurato alla giustizia italiana, perché è giusto che sconti la sua pena in Italia. Ma non posso condividere i modi in cui questo è avvenuto: il comitato di accoglienza all’aeroporto di Ciampino, il B-movie del ministro Bonafede. Imbastire uno spettacolo in una logica di produzione del consenso, di propaganda politica, è veramente una barbarie senza fine, indegna di uno Stato democratico”. A me quei tre minuti di Bonafede avevano fatto pensare, più che a un B-movie, alla contraffazione pataccara di un film indie da Sundance festival, il diario quasi intimista della giornata di un ministro, con tanto di colonna sonora melensa. Sembra una precisazione pedante, ma la differenza tra i vecchi filmati barbarici di Grillo, che inseguiva in bicicletta i parlamentari sotto processo, e questa nuova barbarie più soffusa, dà la misura stilistica di un passaggio epocale, quello che ci ha portati ad accettare la gogna come una cosa tutto sommato ordinaria, il basso continuo delle nostre vite. Le onde maligne del Big Bang del 1992 continuano a propagarsi di anno in anno, dando forma al cupo universo della nostra Repubblica penale. Mara Carfagna colloca l’esplosione di questa epidemia di rabbia vendicatrice un po’ più avanti, nel 2008: “Sono stati anni anni complicati per l’occidente. Tutto è partito dalla crisi dei subprime, che dagli Stati Uniti si è trasferita in Europa, in Italia, ed è arrivata all’economia reale. Poi c’è stata la crisi dei debiti sovrani, e contemporaneamente il fenomeno migratorio ha assunto dimensioni epocali. La globalizzazione ha fatto emergere dalla povertà larghe fasce della popolazione mondiale ma ha cambiato i connotati delle società occidentali, perché ha compromesso il livello di benessere dei ceti medi produttivi. Noi abbiamo il dovere di difendere questo livello di benessere. Alcune forze politiche hanno avuto la capacità più di altre di decifrare quei sentimenti che emergevano dal disorientamento, e hanno saputo dare rappresentanza alla rabbia, alla paura. Le persone si sono sentite di nuovo considerate. E in Italia si sono affidate a due estremismi: uno incarnato dal Movimento 5 stelle e l’altro incarnato dalla Lega”. Non avrei nulla contro la vecchia teoria degli opposti estremismi, se non fosse, le obietto, che i due estremismi in questione non mi sembrano poi così opposti. Mara Carfagna ha l’idea che l’alleanza tra Cinque stelle e Lega sia un po’ come una relazione tossica, in cui ciascuno dei partner tira fuori il peggio dell’altro. Eppure, convenienze elettorali a parte, io dico che quei due erano destinati a finire nello stesso letto – o perché gli opposti estremismi si attraggono, o perché chi si somiglia si piglia. Man mano che Mara Carfagna compila l’inventario delle scelleratezze governative, dall’oscurantismo sui vaccini al referendum propositivo per scardinare la democrazia parlamentare, mi viene naturale estendere l’analogia amorosa. In breve: perché continuare a trattare Salvini come il fidanzato scapestrato che tornerà da noi dopo una scappatella e non come l’ex di cui un giorno, guardando una vecchia foto, ci chiederemo: ma come diavolo facevamo a stare con quel tipo lì? “Con la Lega abbiamo governato e stiamo governando bene a livello locale”, mi dice Mara Carfagna. “Naturalmente non posso condividere le scelte di un alleato che non rispetta la nostra visione liberale. Sarà Salvini a spiegarci se questa con il M5s per lui è stata un’esperienza transitoria, un’alleanza contronatura, e se insomma avrà voglia di ritornare sulle posizioni del centrodestra. In quel caso, sconfessando le politiche fallimentari di questi mesi, tornerà a essere un alleato naturale. Con questo Salvini che avalla l’aumento delle tasse, l’aumento della burocrazia e una politica estera demagogica e irresponsabile che isola l’Italia avremmo serie difficoltà a governare”. Provo a tradurre: si può governare con la Lega di Maroni e degli amministratori locali, con la Lega di Zaia e di Fontana. Ossia, si può governare con una Lega che non esiste più, o che conta sempre meno. Oggi la Lega è Salvini, quello che si sceglie Borghi come responsabile economico – non proprio un allievo di Antonio Martino. “Abbiamo il compito di raccontare la nostra visione alternativa rispetto a questo governo, e di fare un’opposizione netta. Non possiamo più limitarci a dire al figliol prodigo Salvini di tornare a casa, perché è responsabile tanto quanto i Cinque stelle dello sfascio dei conti pubblici, dello sfascio della democrazia parlamentare se dovesse passare l’introduzione del referendum propositivo, e dell’incarognimento civile, perché a furia di vellicare gli istinti più bestiali finisci per inoculare un veleno nelle vene del nostro paese. L’Italia non si può reggere sulla rabbia, sulla paura, sull’invidia sociale, sulla sete di vendetta, sulla voglia di punire determinate categorie”. Quanto a inoculare veleno, ricordo a Mara Carfagna un vecchio video di Salvini, che non capisco perché non gli venga rinfacciato ogni giorno. All’epoca il ministro dell’Interno era Angelino Alfano, che aveva scritto questo tweet: “L’Italia non merita Salvini”. Il leader della Lega, in versione senso-dello-Stato, era esterrefatto: un ministro dell’Interno non può twittare cose del genere, si sfogò, perché ricopre una funzione delicata e deve essere al di sopra delle parti. E se poi qualche squilibrato lo prende alla lettera e si mette in testa di fare cose strane? Da non ministro, Salvini aveva ragione. Da ministro, passa il tempo a bersagliare privati cittadini e ad aizzargli contro i suoi hooligan.

 

“La paura dei cittadini è stata alimentata non solo da chi ha soffiato sul fuoco ma anche da chi non è stato in grado di gestire l’immigrazione”

“L’Italia non si può reggere sulla rabbia, sulla paura, sull’invidia sociale, sulla sete di vendetta, sulla voglia di punire alcune categorie”

“Se tu vivi continuamente la dimensione della propaganda, se passi le tue giornate a fare dirette su Facebook, post su Instagram o su Twitter, a esultare dai balconi per aver abolito la povertà o a salire sui tetti dei palazzi romani, magari facendo anche un po’ il nostalgico mussoliniano, finisci per perdere il contatto con la realtà. E allora succedono cose strane”. Per esempio? “Per esempio, succede che convochi un vertice straordinario a Palazzo Chigi alle undici di sera, e non per affrontare la crisi occupazionale o l’emigrazione giovanile, ma per decidere dove collocare poche decine di immigrati. Però la politica spettacolo dopo un po’ lascia insoddisfatti. Ha spesso la capacità di individuare i problemi, ma le manca del tutto la capacità di risolverli. Le persone non si svegliano al mattino con l’ansia di vedere cosa mangia Salvini o dove va in visita Di Maio, vogliono sapere se i propri figli potranno godere di un livello di benessere pari a quello di cui hanno goduto loro. E il clima sta già cambiando, me ne accorgo girando per l’Italia: imprenditori, artigiani, commercianti che avevano riposto una grande fiducia nella Lega oggi sono delusi e spaventati”.

 

Eppure, spuntate le voci di questo catalogo di cialtronerie, così lungo che si fatica a credere che il governo sia in carica da pochi mesi, resta il fatto che i due estremismi godono ancora di buoni consensi. Mi interrogo spesso su questo rompicapo: perché gli italiani, che parrebbero pronti a plebiscitare il governo, non si sognano neppure di investire in titoli di Stato? La risposta che mi do è questa: da noi la politica – lo diceva mezzo secolo fa Luigi Barzini – ha un aspetto preponderante di messinscena. La rappresentazione, in senso teatrale, è in parte slegata dalla rappresentanza degli interessi. Applaudiamo lo spettacolo e ci identifichiamo con gli attori, ma non per questo gli affideremmo i nostri risparmi. Se vogliamo dirla ancora diversamente, nella nostra psicologia c’è un residuo monarchico: il piano dell’amministrazione e il piano dello spettacolo di corte corrono paralleli. Va bene il buon governo, ma vogliamo anche il nostro Buckingham Palace, una famiglia reale alle cui vicende appassionarci e sui cui amori spettegolare. In questo, si può dire che Berlusconi è stato l’ultimo re d’Italia. E Mara Carfagna non perde occasione per rivendicare la sua continuità dinastica con il berlusconismo. Eppure, le discontinuità mi sembrano altrettanto evidenti. Gli attributi che elenca quando le chiedo di definire la sua idea di destra – liberale, moderna, europeista, laica, moderata, responsabile, attenta ai doveri e non solo ai diritti, severa ma non crudele, rigorosa nei conti pubblici – delineano una delle grandi chimere della vita politica italiana, che continuiamo a inseguire da decenni senza mai riuscire ad acciuffarla: la chimera di una destra repubblicana “normale” (le virgolette sono d’obbligo), o almeno non troppo diversa da quelle di altri paesi europei. L’ultimo tentativo di cui abbia memoria, benintenzionato quanto raffazzonato, fu quello di Gianfranco Fini nei tardi anni Novanta – il Fini dell’Elefantino, per intenderci. Al suono di quel nome Mara Carfagna sorride, quasi lo avesse sentito scoccare da lontano: sapeva dove sarei andato a parare. “La differenza è che io non faccio il bastian contrario di Berlusconi, che è il mio leader. Qualcuno che ama unirsi al coro gaudente dei fan di nuova generazione del salvinismo imperante prova a usare questi paragoni per attirarsi lo sguardo benevolo del nuovo capo. Forse s’illudono che Salvini sia il nuovo Berlusconi. Non è così. Berlusconi non ha bisogno di individuare un nemico per accumulare consensi. Riesce come nessun altro a capire gli umori più profondi delle persone, e non ne interpreta solo le paure, le ansie e le preoccupazioni, ma anche le ambizioni e le speranze. E non gioca mai a dividere”. In effetti Berlusconi è stato un leader antropologicamente cattolico fino al midollo, con l’ansia universalistica di “farsi tutto in tutti” e con il retaggio pagano che il cattolicesimo si trascina dietro, tra devozioni, miracolismi e culto delle immagini: per questo non ci si stupiva, sotto Natale, di trovarlo sotto forma di pastorello del presepe, tra le bancarelle a San Gregorio Armeno a Napoli. Il berlusconismo riformato di Mara Carfagna in questo segna una cesura; sembra occhieggiare a uno stile calvinista, e non sarà un caso se il Beruf di Max Weber è tra le nozioni che più le piace citare. La troveremo mai riprodotta in miniatura in un presepe? Se così fosse, avrebbe vinto la sua battaglia. Perché nella spaventosa crisi di legittimità che attraversa le democrazie, ragione e competenza (quasi due parolacce, ormai) non bastano: ci vuole pure la giusta dose di immaginario liturgico, monarchico e fiabesco. La sfida, insomma, non è solo tra persone serie e cialtroni, tra la buona amministrazione e i fuochi d’artificio dei demagoghi; è anche, per tornare ai miei grilli narratologici, una psicomachia tra maghi bianchi e maghi neri, tra Merlino e Morgana. E con il maggio fatale che incombe, le schiere dei democratici in lotta con la congrega stregonesca di Bannon hanno dalla loro molti onestuomini, ma pochi maghi e fate.

 

Questi pensieri però li ho tenuti per me, mentre ero a colloquio con Mara Carfagna: le sarebbero sembrate astruserie di uno spirito ozioso – e non me la sento di darle torto. Ma una cosa, alla fine, ho dovuto confessargliela: ebbene sì, sono io il buontempone che mesi fa, in vena di goliardia, ha fondato il Movimento Neomonarchico per Mara Carfagna Regina d’Italia. Avevo trovato anche il motto – “Franza o Spagna purché Carfagna” – e in poche ore avevo raccolto centinaia di adesioni di illustri goliardi, tra cui Gipi e Roberto Burioni. La burla è durata sì e no una settimana, come gran parte degli ordini monastici e delle sette esoteriche che mi diverto a fare e disfare nel tempo libero. Ma la cosa stavolta dev’essermi sfuggita di mano, perché qualcuno mi ha preso in parola e ha regalato a Mara Carfagna una coroncina di plastica. Ho tentato di convincerla a mettersela in testa per gioco, ma non c’è stato verso di farla uscire dal contegno istituzionale imposto dal ruolo. La cosa non può passare inosservata, di questi tempi; ma chissà che questa qualità non si riveli il suo tallone d’Achille. Ora che impazza sulle scene un trasformista alla Fregoli che cambia divisa sette volte al giorno (salvo quella della Guardia di finanza, ha notato maliziosamente il nostro David Allegranti), uno che ha una percezione così fluida dei ruoli che non capisci mai, quando lancia i suoi proclami, se ti sta parlando da ministro, da vicepremier, da capo partito, da papà, da cugino di secondo grado, da madre superiora, da testimonial del ragù Star o da allenatore di calcio, non basta una corona di plastica. Dovranno regalare a Mara Carfagna una bacchetta magica con la stella in punta, un cappello a cono e una pozione per sciogliere gli incantesimi maligni.