Tav, autonomie, acqua pubblica. Lega e M5s scelgono l'attendismo
Meglio rinviare che litigare. La strategia scelta da Salvini è quella della non belligeranza nei confronti dell’alleato
Roma. Con quell’ostentazione orgogliosa, tutta lombarda, d’insofferenza per le perdite di tempo, Massimo Garavaglia sfogava il suo malessere uscendo dall’ascensore del piano ammezzato del Senato: “Speriamo che almeno oggi si lavori un po’”. Oggi? “Be’, non è che nei giorni scorsi si sia combinato granché”, diceva, martedì a ora di pranzo, il sottosegretario leghista all’Economia. Dietro di lui, la sua collega Laura Castelli s’accingeva, pure lei, a entrare in commissione Bilancio. La stessa che, in effetti, già lunedì era stata convocata, e poi subito annullata, con tutto l’imbarazzo del caso, da parte del presidente, il grillino Daniele Pesco. “A noi – scuoteva intanto la testa Mauro Marino, del Pd – vanno bene pure le sedute notturne, ma che almeno sui tempi ci sia un minimo di chiarezza”. Non poteva esserci, evidentemente: Lega e M5s non sono ancora d’accordo su buona parte degli emendamenti da apportare al testo del cosiddetto “decretone”, quello che include quota cento e reddito di cittadinanza. E però, siccome la recita tocca pure portarla avanti, ecco che i due vice di Giovanni Tria martedì hanno espresso il parere del Tesoro sulle coperture finanziarie del provvedimento, già sapendo che poi, anche su quell’aspetto, ci si dovrà riaggiornare. E infatti nel frattempo, la commissione Lavoro presieduta dalla grillina Nunzia Catalfo, prosegue stancamente l’analisi dello stesso decreto. “Un dibattito abbastanza inutile, visto che ci hanno già spiegato che ci saranno cambiamenti rilevanti alla Camera”, dice Tommaso Nannicini.
E di nuovo verifiche, allora, e di nuovo vertici di maggioranza. La Castelli, sul reddito di cittadinanza, martedì a Palazzo Chigi ha tenuto il punto: solo cambiamenti marginali. Ha vinto la sua battaglia, anche perché, per ora, dalla Lega fanno sapere di non volere “fare le barricate”. Tattica e rimandi, in questa corsa rallentata contro il tempo in vista del 6 marzo, quando le prime richieste dei beneficiari del reddito dovrebbero – Di Maio dixit – essere vagliate dalla nuova Inps. “Tra sabato e domenica scorsi – dice Cristina Grieco, assessore al Lavoro in Toscana e portavoce delle regioni nella trattativa col governo – si sarebbero dovuti stilare gli emendamenti che accoglievano le nostre riserve sui navigator, che devono essere assunti da noi, e non da Anpal”. E invece? “E invece niente, stiamo ancora attendendo”.
Di attendere, invece, s’è stufata la Commissione europea, estenuata dalla pantomima grilloleghista sulla Tav. Martedì, nel cda di Telt (la società italofrancese che dirige i lavori della Torino-Lione), i tecnici di Bruxelles hanno formalizzato l’ultimatum: se entro marzo non verranno fatti partire i bandi di gara per la selezione delle imprese, ci sarà la prima decurtazione dei fondi comunitari. Salterebbero 300 degli 813 milioni che la Commissione ha stanziato, finora, per la Tav. Una ragione in più che dovrebbe persuadere Matteo Salvini alla risolutezza. E invece, nella mozione di maggioranza firmata dai capigruppo D’Uva e Molinari che stamattina verrà discussa nell’Aula di Montecitorio, non ci sarà che un vago riferimento al solito passaggio fumoso già previsto nel contratto di governo, con tanto di riabilitazione dell’analisi costi-benefici, che pure la Lega ha profondamente criticato.
D’altronde, la strategia scelta da Salvini è quella della non belligeranza nei confronti dell’alleato. Un po’ come un ciclista in fuga che si ritrova accanto, su per la salita, un compagno più spompato, che però potrà tornargli utile dopo lo scollinamento: e allora non lo stacca, e anzi lo aiuta, lo incita. Così Salvini, che ha trovato nella convivenza coi Cinque stelle una comoda sistemazione, fino alle Europee punta a logorare, sì, Di Maio, ma non a sfiancarlo. Sperando che poi, al momento della rottura, il vicepremier si ritrovi condannato, con l’ala governista del M5s, a restare aggrappato al Carroccio nel ruolo di socio di minoranza, oppure soccombere. Ed ecco allora la teoria del minimo attrito.
Lo si capisce, in fondo, anche dallo strano attendismo con cui lo stato maggiore della Lega sta reagendo all’avventurismo grillino sul campo dell’acqua pubblica, tanto caro al presidente della Camera Roberto Fico. Già nei giorni scorsi, il Mef aveva espresso, in via informale, notevoli perplessità sul testo base del provvedimento firmato da Federica Daga, che assegnerebbe alle amministrazioni pubbliche l’esclusiva gestione dei servizi idrici: un’operazione che, a giudizio della Ragioneria dello stato, avrebbe pesanti ricadute sulla fiscalità generale con “conseguenti ingenti oneri per la finanza pubblica”, senza contare il “rischio elevato di contenzioso” con gli attuali gestori e i relativi “oneri e indennizzi verso i concessionari esterni”. Mercoledì, la capogruppo leghista in commissione Ambiente, Elena Lucchini, ha formalizzato anche le correzioni che la Lega ritiene necessarie per mandare avanti il testo. Ma, in ogni caso, senza esasperare le tensioni.
Del resto, Salvini vuole ridimensionare le divergenze anche su uno dei temi che restano dirimenti, almeno a detta di Giancarlo Giorgetti, per la sopravvivenza del governo: l’autonomia. Stamattina il ministro Erika Stefani verrà audita dalla commissione bicamerale per il Federalismo fiscale. “E dopo di lei, toccherà anche allo stesso Giorgetti, poi Tria e Salvini, e poi forse i presidenti di regione coinvolti”, spiegava mercoledì Cristian Invernizzi, leghista bergamasco e autonomista convinto. “Convinto, più che altro, che su questo tema i grillini proveranno a tirarla in lungo, anche con obiezioni pretestuose”, sbuffava in Transatlantico, con l’aria di chi in fondo è già rassegnato al dilatarsi dei tempi. E però, almeno su questo tema, su questa vagheggiata autonomia che Salvini ha spesso sventolato davanti agli occhi di veneti e lombardi per convincerli a sopportare le ricette assistenzialiste a cinque stelle come una inevitabile merce di scambio, l’immobilismo tattico potrebbe costare molto al leader del Carroccio. Per capirlo, mercoledì sera bastava parlare con Silvia Rizzotto, braccio destro di Luca Zaia in Consiglio regionale veneto, che interrogata sullo stato d’animo dei suoi corregionali per queste continue lungaggini parlamentari, rispondeva lapidaria: “Infastiditi e delusi. Ma speriamo che almeno – aggiungeva poi – il tutto servirà a tranquillizzare chi, al sud, parla impropriamente di secessione”.