Così il governo ha fatto del reddito di cittadinanza un bancomat senza controlli
A dieci giorni dal debutto, caos all'Inps e stallo all'Anpal. Maglie della sorveglianza deboli. Conta il sussidio, non il lavoro
Roma. Nel coacervo di paradossi che è il governo del cambiamento, sembra avere una sua coerenza anche questo: che i due istituti deputati a guidare la madre di tutte le riforme, il reddito di cittadinanza, siano ancora senza una guida operativa. Mimmo Parisi, il professore venuto dal Mississippi a mostrare i mirabolanti poteri della sua app per incrociare domanda e offerta di lavoro, proprio ieri ha iniziato a ambientarsi nei suoi uffici romani di Anpal. D’altronde, il via libera definitivo della Corte dei conti alla sua promozione a capo dell’Agenzia per le politiche attive è arrivato solo lunedì sera, e potrebbe non essere risolutivo.
Parisi, infatti, non ha intenzione di rinunciare al suo ruolo di professore ordinario alla Mississippi State University, e per questo si è resa necessaria la concessione di una sorta di aspettativa per dodici mesi. Il problema, però, è che il mandato di presidente di Anpal ha una durata prevista di almeno tre anni. E dunque lo stratagemma che al governo potrebbero adottare è quello di richiedere un parere all’Avvocatura dello stato: una tutela rispetto al rischio di possibili ricorsi, e però anche una soluzione che prolungherebbe nel tempo il limbo di Parisi. Il quale, tuttavia, non è l’unico a trovarsi in mezzo al guado di una transizione tribolata. Pasquale Tridico, infatti, da giorni indice e convoca riunioni, impartendo ordini ai suoi potenziali sottoposti: come se presidente dell’Inps lo fosse davvero, insomma (e così si legge già sulla sua nuova pagina Wikipedia, debitamente aggiornata con zelo). E però, ancora, non lo è. Perché la nomina di Tridico diventi effettiva, c’è bisogno che il Mef dia parere favorevole. E invece ieri lo stesso Di Maio ha ammesso che attende la firma di Giovanni Tria al decreto che farebbe del fu fantaministro del Lavoro il nuovo commissario di Inps.
Un ritardo dovuto, formalmente, alla definizione del tetto dello stipendio di Tridico, e che in verità si spiega alla luce del malumore dei potenziali vice del professore di Roma Tre. Né Francesco Verbaro, né Mauro Nori sembrano infatti volere accettare un incarico da vicecommissari: un po’ per la possibile transitorietà della carica, un po’ perché, pare, entrambi aspirerebbero semmai al ruolo assai più prestigioso di direttore generale.
Ma al di là del garbuglio delle nomine, il pantano in cui stanno sprofondando i primi passi verso il lancio del reddito di cittadinanza – quando mancano appena dieci giorni alla data fatidica del 6 marzo, indicato da Di Maio come il giorno del gran debutto per presentare le richieste del sussidio agli sportelli delle Poste – ha soprattutto a che fare con problemi di tipo operativo. Il Garante per la privacy ha già fatto sapere che i metodi di verifica dei requisiti per l’accesso al sussidio sono troppo invasivi rispetto alla tutela dei dati personali; così come illegittimo risulta anche il monitoraggio dell’Inps sulle singole spese effettuate.
Il Senato, ieri, ha adottato delle correzioni su entrambi gli aspetti. “Modifiche marginali”, dicono nel M5s. E però, resta una stortura: se si dovranno allentare le maglie dei controlli preventivi, diventerà quasi impossibile per l’Inps verificare nel dettaglio le richieste di cinque milioni di potenziali beneficiari. E il rischio è che si arrivi, allora, al “liberi tutti”: con una ulteriore controindicazione. Essendo stata già fissata l’entità complessiva del fondo destinata al reddito – 6,1 miliardi previsti per il 2019 –, se il filtro iniziale sarà poco selettivo si dovrà arrivare alla rimodulazione dell’importo del sussidio, come del resto si è già previsto in una clausola di salvaguardia inserita nel testo del decreto. Tutte incognite che ancora gravano sull’attuazione effettiva della misura, e che stanno inducendo i vertici dell’Inps a una certa titubanza. I collaboratori del dimissionario Tito Boeri hanno perfino chiesto informalmente delle indicazioni agli uffici giuridici del Quirinale, e dal Colle è arrivato un consiglio alla cautela nell’attuazione di un decreto che, al momento, è ancora lungi dall’essere licenziato dal Parlamento.
Dopo un travagliato vaglio da parte delle commissioni Lavoro e Bilancio del Senato, l’Aula di Palazzo Madama dovrebbe approvare oggi un testo ancora tutto da modificare. Alla Camera, infatti, arriveranno tutti gli emendamenti frutto del tavolo di concertazione al Mise tra il governo e le regioni, che chiedono significative modifiche sulla procedura di reclutamento dei 6 mila navigator. “Quella sulle politiche attive è una competenza esclusiva delle regioni, e se non verrà rispettata siamo pronti a ricorrere alla Corte costituzionale”, continua a ripetere Cristina Grancio, assessore al Lavoro in Toscana. Dopodiché, ammesso che tutto andrà come deve, si tornerà al Senato per la terza e definitiva lettura. I tempi? Matteo Mantero, senatore grillino, ammette che “difficilmente ce la faremo per il 6 marzo”. Massimiliano Romeo, capogruppo della Lega a Palazzo Madama, se la prende con calma: “Il decreto scade il 28 di marzo. Per quella data, di sicuro lo approveremo”. E lo dice con l’aria di chi non appare affatto preoccupato. D’altronde, tra i ministri del M5s c’è chi dice che ai colleghi della Lega non dispiacerebbe poi troppo, se l’applicazione del decreto si rivelasse più problematica del previsto. E forse neppure ai Cinque stelle: a loro, quello che davvero interessa è che prima delle europee venga erogato il sussidio. Tutto il resto, si vedrà poi.