L'impegno per il referendum propositivo? Ridurre il danno
Accettiamo la sfida e lavoriamo perché lo strumento resti compatibile con la democrazia rappresentativa
Si sta cominciando ad aprire un dibattito sulla riforma costituzionale relativa al referendum propositivo che va al di là dei deputati che su di esso sono stati chiamati a votare. Questo è un bene. Prima di spiegare cosa penso nel merito vorrei però fare una premessa su due aspetti. Il primo è di carattere generale: come ci vogliamo rapportare da responsabili politici rispetto ai fenomeni che non ci piacciono, come le contestazioni di questo periodo alla democrazia rappresentativa di cui si fanno forti le due componenti della coalizione di governo? Qui è facilissimo reagire in due modi entrambi sbagliati.
C’è la reazione della demonizzazione che obiettivamente ha molte ragioni e che fa una lettura complessiva di contesto: si inserisce questo referendum, si riducono i parlamentari, nel frattempo si usa sul piano politico la piattaforma Rousseau, si segnalano altre anomalie, tutte vere. A questo punto, di fronte a tale contesto, sarebbe inutile occuparsi dei testi: sarebbe sufficiente proclamare un non possumus in nome dello status quo, della democrazia rappresentativa come essa è. Ma non eravamo stati anche noi – si può replicare – a promuovere riforme costituzionali ben più incisive, persino su questi stessi aspetti? Non importa, si risponde: il contesto è così grave che dobbiamo stare solo sulla difesa dei nostri princìpi non negoziabili, come dovessimo aprire degli spiragli tutto sarebbe travolto. Ma se sosteniamo la superiorità della democrazia rappresentativa – si può ancora obiettare – perché essa consente il dialogo, mentre quella diretta propone lo schema a somma zero Sì-No, saremmo poi coerenti se rifiutassimo il dialogo concreto? Non saremmo in contraddizione con noi stessi? Le molte ragioni che hanno i demonizzanti vanno insomma a infrangersi su una serie di problemi che rende la loro posizione meno sensata, meno irresistibile, di quanto potrebbe apparire almeno a prima vista.
Alla reazione della demonizzazione fa da pendant quella dell’appeasement, che si è espressa soprattutto a inizio legislatura: ci sono dei nuovi barbari che purtroppo hanno il consenso, scegliamo tra di loro i meno peggio e passiamo a loro, proviamo a civilizzarli, tanto noi siamo più preparati e civilizzeremo il fiero vincitore, almeno quello più confuso e inesperto. Cosa importano i rapporti di forza, che noi siamo di meno e magari anche divisi, la storia tornerà comunque a prendere il nostro senso, l’unico possibile, superando questa parentesi. Ma siamo sicuri – abbiamo obiettato – che questo approccio non sia ingenuo e provvidenzialistico? Ce lo siamo detti in modo efficace e quindi non si è fatto un governo del genere. Però, una volta che a inizio legislatura abbiamo evitato (credo a ragione) quello che sarebbe stato allora un appeasement, siamo sicuri che questo basti nel prosieguo e ci esenti dal confronto puntuale punto per punto, testo per testo durante la legislatura, su qualsiasi tema, specie quello costituzionale, che ha una sua specificità rispetto all’indirizzo di maggioranza? Dire di no a un governo, in termini di analisi di politics, comporta un non expedit su tutte le policies?
Il secondo aspetto, che segue a questa insoddisfazione per queste due vie estreme, è più puntuale e si riferisce a due casi concreti, proprio connessi alla materia referendaria. Il primo di cattiva e il secondo di buona prassi. Tra qualche giorno saranno trent’anni da quando il Congresso nazionale della Fuci a Bari propose di utilizzare lo strumento referendario per il passaggio al sistema elettorale maggioritario e l’elezione diretta del sindaco, iniziando una graduale slavina che vide aggregare una parte dell’associazionismo cattolico e della Dc, soprattutto nelle sue componenti di sinistra, i radicali e la componente maggioritaria del Pci che si sarebbe a breve trasformato in Pds. Contro questa sfida, che andava a colpire alla radice il sistema bloccato, il Caf ancora in auge reagì difendendosi a riccio, quasi che essa rappresentasse un fenomeno di irrazionalità, di insoddisfazione esagerata. Molti di noi allora stavano dalla parte degli sfidanti, anzi era in fondo la prima nostra vera esperienza politica, e si sarebbero attesi una reazione diversa: non c’erano forse dentro il Palazzo i socialisti che avevano aperto alle elezioni dirette, persino del presidente della Repubblica? Non c’erano dei dc moderati che ritenevano maturo il tempo dell’alternanza? Questo non accadde e, dopo il risultato travolgente del referendum sulla preferenza unica che rivelava un rigetto di massa dello stallo di sistema, la transizione non venne guidata in modo razionale: buona parte del ceto politico, rivelatosi privo di consenso, fu subito dopo quella verifica travolta dalle inchieste di Tangentopoli. Opposta invece è stata in questi mesi la risposta di Macron, avviando un percorso di dialogo diffuso, anche sulla richiesta di introdurre il referendum propositivo: vedremo gli esiti concreti, però intanto il sistema non ha dato l’impressione di alzare il ponte levatoio contro gli sfidanti. Ovviamente entrambi questi parallelismi sono impropri perché da noi gli sfidanti sono già al governo, ma credo che lo stile dovrebbe essere comunque quello di Macron e non delle forze di maggioranza italiane del 1989-’92.
Superate queste due promesse, mi sembra che si debba seguire, sul tema del referendum, lo schema del vedere, giudicare, agire.
Anzitutto vedere: il testo originario di maggioranza prevedeva senza dubbio un modello di alternatività tra referendum propositivo e democrazia rappresentativa. Una volta nato il fiume dalla sorgente dei cinquecentomila elettori niente e nessuno avrebbe potuto frenare la sua discesa fino alla foce, fino alla Gazzetta Ufficiale. Niente limiti di materia, voto degli elettori in ogni caso anche di fronte a una controproposta parlamentare di qualsiasi tipo, quorum zero. Quindi giudicare: cosa aveva a che fare questa proposta rispetto al modello ripetuto in vari passaggi politici, dalle Tesi dell’Ulivo fino alla relazione della commissione di esperti nominata dal governo Letta e alla proposta cosiddetta Renzi-Boschi bocciata nel referendum del dicembre 2016? Ben poco, se non il nome. Impensabile non mettere dei paletti significativi di merito, a cominciare dalle leggi di spesa e in materia penale. Troppo limitativo porre il Parlamento spalle al muro: o sottomettersi alla proposta popolare sfidandola nel referendum anche qualora il Parlamento avesse condiviso non solo l’importanza del tema ma anche la direzione in cui legiferare o rassegnarsi a difendere nel referendum lo status quo. Assurdo infine passare da un quorum indubbiamente molto alto, stante la crescita strutturale dell’astensione negli ultimi decenni, addirittura al suo annullamento.
E allora come agire? Nell’unico modo possibile, credo, per chi non abbia una preclusione assoluta verso lo strumento (come, pare di capire, sia la posizione di Forza Italia) e per chi non pensi di giocare allo sfascio, cosa che però segnerebbe un’obiettiva abdicazione rispetto al proprio ruolo di parlamentari: la riduzione del danno, cercando di reintrodurre le caratteristiche che rendessero lo strumento compatibile con la democrazia rappresentativa. Ci si può dire soddisfatti degli esiti concreti dell’azione? Li ricordo sinteticamente: è rimasto un sostanziale automatismo tra proposta presentata e voto degli elettori (esso ora salta solo per modifiche meramente formali); è stato inserito un filtro importante di controllo preventivo di costituzionalità che impedisce di portare al voto varie questioni che urterebbero con vari princìpi presenti nella prima ma anche nella seconda parte della Costituzione (compresi i vincoli europei e internazionali e il giusto processo), ma purtroppo è rimasta referendabile sia la materia penale sia quella delle leggi di spesa per cui varie iniziative demagogiche – purché non anticostituzionali – potrebbero effettivamente arrivare al voto; è stato inserito un serio quorum approvativo, per il quale i Sì oltre a battere i No devono essere almeno pari a un quarto degli elettori. Per capire bene l’importanza di quest’ultimo basti pensare che con la vigente legge Rosato si può prendere una maggioranza assoluta in seggi in entrambe le camere segnando l’indirizzo dell’intera legislatura con meno del 30 per cento degli elettori: se ad esempio partecipa il 70 per cento degli elettori un 40 per cento dei voti validi ben distribuiti (ossia un 28 per cento degli elettori) può arrivare a tale esito. Per la gran parte di coloro che hanno partecipato alla riduzione del danno in questa prima lettura (Pd, Radicali), essa è stata comunque insufficiente per cui il voto è stato No; per altri (Leu) il bilancio è stato più sfumato e quindi l’esito è stato di astensione. Vari anche i meriti nel recepimento degli emendamenti: la Lega sui quorum, il M5s sul controllo preventivo, il ruolo attivo della relatrice e di altri. La domanda però, a questo punto, continua ad essere: posto che nessuno propone l’appeasement, vale la pena di continuare su questa strada, stando rigorosamente al merito di questa policy, riproponendo le proposte non raccolte, o slittare verso il non possumus? Molti degli articoli, delle interviste, delle prese di posizione, prima o dopo aver sottolineato tutti gli aspetti criticabili e divaricanti, hanno comunque il dovere di indicare con quale orientamento intendono muoversi, non dandolo per implicito. Io credo che sia necessario proseguire sul metodo già scelto alla Camera in prima lettura, per ragioni strutturali e congiunturali, ma penso appunto che sia questo aspetto a dover essere focalizzato come il più importante e comunque ineludibile. Perché, forse, il primo dissenso è su questo e non riproduce quello che si ebbe a inizio legislatura sui governi possibili. Non mi pento di aver rigettato allora quello che mi sembrava un appeasement, ma non penso che ogni risposta di oggi si deduca meccanicamente da quella data allora: mi sembrerebbe una troppo facile abdicazione di responsabilità. Con gli eccessi di prudenza non avremmo osato iniziare la transizione istituzionale nel marzo 1989. Da quel senso di sfida, anche a noi stessi, dobbiamo invece ripartire.