C'è una maggioranza silenziosa: il TTP
Non si possono capire le primarie Pd senza mettere insieme i 200 mila a Milano, i 200 mila in piazza con i sindacati, i cortei sì Tav. Tutto Tranne i Populisti. La sfida di Zingaretti è l’alleanza non con le correnti Pd ma con il movimento del People’s Vote
Le primarie del Partito democratico vinte trionfalmente domenica scorsa da Nicola Zingaretti ci dicono qualcosa di interessante sullo stato di salute del primo partito d’opposizione, la notizia della sua morte – per dirla alla Mark Twain – era ampiamente esagerata, ma ci dicono qualcosa di più interessante sullo stato di salute di un movimento trasversale molto più grande rispetto al perimetro occupato oggi dal Pd: il TTP.
Il TTP non è un trattato di libero scambio ma è una sigla che fotografa una maggioranza silenziosa che da mesi si è messa in moto in tutto il paese: Tutto Tranne i Populisti. Buona parte del popolo del Pd, prima ancora che per amore di Zingaretti, è stato spinto a votare alle primarie il candidato ritenuto più forte con la stessa logica con cui sabato scorso a Milano sono scese in piazza 200 mila persone contro il razzismo, con cui il 9 febbraio sono scese in piazza a Roma con Cgil, Cisl e Uil 200 mila persone per protestare contro il governo, con cui il 10 novembre e il 12 gennaio sono scese in piazza a Torino 30 mila persone a favore della Tav, con cui a fine ottobre a Roma 22 mila persone hanno firmato un appello per manifestare in Campidoglio contro Virginia Raggi, con cui il 10 novembre a Torino hanno manifestato per un’Italia ad alta velocità agricoltori, commercianti, esercenti, cooperative, industriali appartenenti a oltre tre milioni di imprese e in rappresentanza del 65 per cento del pil e di 13 milioni di lavoratori, con cui il 13 dicembre a Milano hanno manifestato gli artigiani contro le politiche del no, con cui il 15 dicembre hanno manifestato in piazza a Verona 22 associazioni di categoria per chiedere la Tav, con cui l’11 novembre in occasione del referendum fallito sull’Atac 286 mila persone hanno votato a Roma contro l’immobilismo, con cui il 28 gennaio, e chissà quanti casi ci siamo dimenticati, hanno manifestato a Firenze cittadini, imprenditori, sindacati e associazioni di categoria per sostenere la realizzazione della nuova pista dell’aeroporto di Firenze.
La maggioranza silenziosa europeista – che viene spesso fotografata dai sondaggi attraverso la voce di coloro che risultano indecisi e non disposti a votare per nessuno dei partiti in campo (secondo Ipsos, questa quota di elettori era il 29,4 per cento il 4 marzo del 2018 e oggi è intorno del 43,6 per cento) – si muove all’interno dell’Italia e in ogni suo gesto di vitalità non si limita solo ad andare contro il governo e a chiedere discontinuità ma chiede di essere capita e soprattutto rappresentata.
Nell’Italia di oggi, nell’Italia del TTP, la vera sfida del nuovo segretario del Pd non può essere quella di accontentarsi di aver riportato ai gazebo oltre un milione e mezzo di elettori (nel 2017 il Partito socialista francese portò ai gazebo due milioni di elettori per eleggere Benoît Hamon e pochi mesi dopo prese il 6,4 per cento alle elezioni), ma deve essere quella di parlare alla maggioranza silenziosa che da mesi è alla ricerca di un’alternativa sia al governo sia all’opposizione. Per farlo occorre capire che la partita del futuro non è quella tra centrodestra e centrosinistra, tra populisti e antipopulisti, ma è quella tra apertura e chiusura, globalizzazione e nazionalismo, partito della monnezza e partito della crescita. Per farlo occorre capire che, in attesa che nasca un soggetto politico complementare a quello progressista, l’unica alleanza su cui il Pd deve concentrarsi non è quella tra le correnti del partito ma è quella con il People’s Vote, con quella fetta di elettori che sogna la resipiscenza dell’Italia, chiede al maggior partito d’opposizione un replay del 4 marzo e suggerisce al nuovo segretario di fare un unico accordo in questa legislatura con i partiti rivali: un accordo per tornare in fretta alle elezioni. E per farlo, Zingaretti prima o poi dovrà fare un patto con Salvini. Ma questa è un’altra storia.