Serve un patto tra Zingaretti e Salvini
Il futuro della legislatura non passa da un accordo tra Pd e M5s ma da un asse tra Lega e Pd. Non per governare ma per andare a votare, togliere un alibi a Salvini e mettere il dopo Mattarella nelle mani del bipolarismo tradizionale. Basta un caffè
E se la chiave per il Pd fosse la Lega, più che il M5s? La vittoria di Nicola Zingaretti alle primarie del Pd ha avuto l’effetto involontario di accendere una lucina di speranza nella testa di tutti coloro che da anni si augurano che il Partito democratico stringa prima o poi un’alleanza con il Movimento 5 stelle. Sul fronte grillino, chi sogna questa opzione coincide con il profilo di chi, mosso dallo sconforto, come gli amici del Fatto quotidiano, cerca di trovare a tutti i costi un modo per non ammettere che l’alleanza tra il M5s e la Lega non è frutto del caso ma è un processo del tutto naturale, figlio di una convergenza strutturale tra partiti che hanno le stesse idee sull’Europa, sul lavoro, sulle pensioni, sul debito e forse anche sull’euro.
Sul fronte Pd, invece, chi sogna questa opzione, come l’antico mentore del segretario del Pd, Goffredo Bettini, è mosso dall’idea che per salvare l’Italia dal governo-delle-destre-brutte-e-attive il Pd debba diventare il più possibile flessibile e usare il Movimento 5 stelle con lo stesso approccio usato spesso dalla Lega: come un taxi per tornare al potere. Nelle settimane antecedenti alle primarie del Pd, e anche nelle ore successive al voto ai gazebo, il tema dell’alleanza tra il Partito democratico e il Movimento 5 stelle, nonostante sia stato sempre smentito con forza e in tutti i modi da Nicola Zingaretti, è stato il più gettonato, tra le domande fatte al segretario del maggior partito d’opposizione.
Ma in realtà, se ci si riflette un istante, tra i partiti di governo l’unico con cui il neo leader del Pd dovrebbe aprire urgentemente un dialogo non è il M5s di Luigi Di Maio ma la Lega di Matteo Salvini. La ragione per cui il segretario del Pd avrebbe il dovere di costruire un dialogo con il leader della Lega non riguarda i molti dossier sui quali nonostante la distanza tra i partiti esiste una simmetria oggettiva tra Lega e Pd (dalla necessità di sbloccare le infrastrutture al dovere di alleggerire il carico fiscale alle imprese) bensì un unico grande tema su cui Salvini e Zingaretti potrebbero costruire un patto per salvare l’Italia dall’immobilismo e ridare speranza al paese: quello per tornare a votare il più in fretta possibile. Nelle sue prime quarantotto ore da segretario del Pd, Nicola Zingaretti ha ripetuto spesso che in questa legislatura il Pd ha il dovere assoluto di scommettere sulle elezioni anticipate e non su una nuova maggioranza di governo.
Ma se il segretario del Partito democratico vuole essere coerente con se stesso e con la sua saggia posizione ha solo un modo per tentare di raggiungere l’obiettivo: togliere a Salvini il grande alibi per non tornare a votare. Nelle sue conversazioni private, quando ragiona sul futuro del suo partito, il leader della Lega non dice solo di preferire un governo con Di Maio a una campagna elettorale con Berlusconi ma sostiene di essere sicuro che in caso di crisi di governo ci sarà certamente un tentativo da parte del presidente della Repubblica di fare quello che poco meno di un anno fa stava per accadere davvero: un’alleanza di governo tra M5s e Pd. Il timore di Matteo Salvini è più che comprensibile, ma se davvero il segretario del Pd vuole fare tutto ciò che è necessario per mettere a nudo il governo degli incapaci non ha altra scelta se non quella di stringere un patto con il vicepremier per tornare rapidamente al voto (in Italia le legislature non sono mai durate meno di 722 giorni, e oggi siamo al giorno numero 344, ma la storia della Spagna, tre elezioni in quattro anni ed economia da sballo, dovrebbe insegnarci che quando un governo non funziona non bisogna accanirsi: bisogna tornare a votare).
Dal punto di vista elettorale, naturalmente, un voto anticipato converrebbe a Salvini più di quanto possa convenire a Zingaretti ed è evidente che per tornare a essere competitivo il centrosinistra avrebbe bisogno di tempo, avrebbe bisogno di idee, avrebbe bisogno anche di nuovi alleati (e avrebbe bisogno anche di un partito complementare al Pd che un giorno non lontano potrebbe essere guidato da Carlo Calenda). Ma dal punto di vista strategico fare tutti i passi necessari per tornare presto al voto – e per evitare che un domani possa essere la Troika a imporre un cambiamento di governo – avrebbe anche un altro significato, quello di mostrare sensibilità e attenzione rispetto a una delle partite più importanti che l’Italia si giocherà da qui ai prossimi anni: la successione a Sergio Mattarella. Il mandato del presidente della Repubblica scade nel gennaio del 2022 e se prima non ci saranno nuove elezioni sarà questo Parlamento a scegliere il successore dell’attuale capo dello stato. Tre anni in politica sono un’eternità (tre anni fa Renzi era ancora il re d’Italia) e il 2022 è un appuntamento ancora molto lontano. Ma se dopo le europee la Lega e il Partito democratico facessero capire al Quirinale di essere disposti ad andare a votare presto anche per tentare di ristabilire nel prossimo Parlamento le coordinate del vecchio bipolarismo siamo sicuri che il capo dello stato avrebbe qualcosa da ridire rispetto alla possibilità di sciogliere le camere e affidare a un Parlamento meno pazzo e meno grillizzato di questo il compito di scegliere il suo successore? Il futuro della legislatura non passa da un accordo tra il Pd e il M5s ma passa da un accordo tra la Lega e il Pd. Non per governare insieme, naturalmente, ma per togliere alla Lega almeno un alibi per tenere in vita il governo più pericoloso mai avuto dall’Italia dal Dopoguerra a oggi. E per farlo basta poco. Basta un accordo. Basta forse persino un caffè.