Il Pd tra saponetta e Restaurazione
Tornano i rottamati, torna la sinistra-sinistra, torna pure Repubblica
Roma. Al quinto piano del Palazzo delle Generali, su piazza Venezia, proprio di fronte al balcone ducesco, Nicola Zingaretti abbraccia Frans Timmermans, il socialista olandese, il candidato alla presidenza della Commissione europea. E subito la memoria corre al 2012, quando Pier Luigi Bersani, segretario del Pd, incontrò il socialista François Hollande, futuro presidente della Repubblica francese, e a Parigi lanciò il manifesto dei progressisti europei. Com’è andata è storia, ormai. Fu l’inizio della fine. Nel 2013 Bersani non vinse le elezioni, s’incartò in un tentativo di alleanza di governo con i Cinque stelle, poi arrivò Matteo Renzi, la rottamazione, gli strepiti, le scissioni, mentre anche in Francia i socialisti iniziavano a perdere consenso, fino a schiantarsi quasi nell’irrilevanza. Anche questa è storia. E’ la storia del centrosinistra, che sembra ritornare sui suoi passi, “campo largo”, dice Zingaretti, “comunità”, ripete, riaccendendo spasmi su un corpo che sembrava inerte.
Tornano a votare Roberto Benigni e Gustavo Zagrebelsky, gli attori, i registi, gli scrittori, persino Enrico Letta, insomma tutti quelli che avevano abbandonato con Matteo Renzi, il parvenu che aveva determinato uno smottamento di lingua, di classe e pure di estetica. Ritornano. Ritornano tutti. Così anche in televisione – nei talk – in quel luogo in cui prende forma la matassa della politica, da alcuni giorni si recuperano le voci che furono il rito veltroniano, non solo Massimo Cacciari, ma pure Concita De Gregorio, che non si occupa più soltanto di libri e storie di ragazze ma ritorna al mondo perché è tornato il suo mondo. E quindi con le parole, e i riti, appunto, tornano alcune biografie. Il giorno dopo la vittoria delle primarie, in un Transatlantico deserto, si affacciavano uno dopo l’altro Dario Franceschini con lo zainetto, Bersani sorridente, Piero Fassino accigliato ma vivace.
Il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, e il candidato dei socialisti alle europee, Frans Timmermans (Foto LaPresse)
Sembrava il mar dei Sargassi, dove le anguille vanno a riprodursi. C’erano Franco Giordano, che fu segretario di Rifondazione comunista (“certo che sto con Zingaretti”) e pure Nichi Vendola, proprio mentre Luigi Zanda veniva nominato tesoriere del partito – Paolo Gentiloni potrebbe diventare presidente – e l’ultimo residuo del renzismo, l’ormai ex tesoriere Francesco Bonifazi, lasciava senza meraviglia e senza tristezza. Quasi la Restaurazione. La cipria, le parrucche, le usanze, le cene di corrente sulla terrazza di Francesco Saverio Garofani. Anche Repubblica è tornata al ruolo suo, quello di un tempo, quello dell’identità e della battaglia di sinistra. Miraggi, luoghi comuni, contraddizioni, tic linguistici, frasi cerotto. Sempre la stessa storia, da una vita.
Quando Vittorio Emanuele I tornò a Torino nel 1814, all’esaurirsi dell’avventura napoleonica, ci arrivò con tutto l’armamentario. Entrò in città tra codini infiocchettati, palandrane fruscianti, medaglioni, crinoline, pendagli, insomma l’estetica dell’Ancien régime che si riverberava in idee che il lungo esilio aveva sclerotizzato e incattivito. Il nuovo (anzi vecchio) establishment si preoccupò di rimettere indietro le lancette dell’orologio, e nei modi più grotteschi, spingendosi fino al punto di chiudere il valico del Moncenisio soltanto perché a inaugurarlo era stato Napoleone. Similmente, il nuovo (anzi vecchio) centrosinistra sembra voler recuperare l’estetica e forse anche l’antico vocabolario della civiltà stravolta dalla rottamazione, che non era un’impuntatura violenta contro i vecchi (o non solo), ma libertà di mercato, visione modernista, vocazione maggioritaria. È possibile cancellare la storia? E poi, anche dal punto di vista dei vincitori: è utile cancellarla? Oppure bisogna scegliere, gettare qualcosa e salvare qualcos’altro?
“Se c’è la Restaurazione si vedrà. Intanto litigare con questi è quasi impossibile”, dice Andrea Romano, deputato renziano. E d’altra parte c’è qualcosa di avvolgente e quasi di sedativo in Zingaretti, e cioè il romanesimo, ovvero quel modo di stare a sinistra che condividono tutti quelli cresciuti a Roma con Walter Veltroni e Goffredo Bettini: i supplì e le trattorie, i friccichi de luna e il volemose bene. A Roma la ritualità non è confliggente, ma semmai è confluente. Uno dei soprannomi di Zingaretti è non a caso “saponetta”, non il tipo di tiranno reazionario alla Carlo X. E dev’essere anche per questo che alla Restaurazione insaponata nessuno resiste, nemmeno Renzi, troppo ammaccato, figurarsi i renziani, che evitano istintivamente di pensare alle azioni del loro capo – che si fa chiamare senatore e gira il mondo come una vecchia gloria del rock ’n’roll.
Si tengono lontani dai pensieri di Renzi, i renziani, come ci si allontana dai bordi di uno stagno dalle acque tenebrose e profonde. “Sì va bene, si sono ripresi il partito”, dice allora Michele Anzaldi. “Ma il negozio è chiuso. Il lavoro ce lo fanno tutto Salvini e Di Maio con la Tav e il reddito di cittadinanza. Si ammazzano da soli”. E Fausto Raciti, deputato, amico di Matteo Orfini: “Siamo riusciti a spacciare per vittorie le sconfitte in Abruzzo e Sardegna, che erano regioni governate da noi. Va benissimo. Ma poi?”. Zingaretti incontra il socialista Timmermans, mentre Renzi firma il manifesto europeista di Macron. “Non ci saranno divisioni. Alle europee faremo liste inclusive”, dice il segretario. Ma una Restaurazione non la si misura contando i posti in una lista che, direbbe Jovanotti, sarà “una grande chiesa / che va da Calenda a Madre Teresa”. Contano le idee (e il valico del Moncenisio).