“L'Italia non può diventare strumento dell'egemonia cinese”. Parla il vicepresidente del Copasir
La posizione sul Venezuela, i rapporti dei servizi sulla colonizzazione predatoria, e altre “coincidenze” pechinesi nel governo
Roma. Nel 2001 Adolfo Urso, allora viceministro al Commercio estero, era al Wto quando si decise l’ingresso della Cina. “E in passato ho fatto moltissimo per spiegare l’importanza della Cina alle aziende italiane. Ma la Cina non è più il paese di vent’anni fa. Oggi i cinesi sono politicamente aggressivi e sono economicamente competitivi. Inoltre la Cina sta costituendo un blocco di alleanze alternativo al blocco Atlantico di cui noi abbiamo sempre fatto parte. E’ proprio cambiata la postura dello stato cinese. Dunque è evidente che siglare un accordo dai tratti politici, più che economici, come il memorandum di cui si discute in queste ore sia un’eventualità di primaria grandezza dal punto di vista della politica estera. E c’è una superficialità a tratti sconcertante da parte del governo”.
Vicepresidente del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, senatore di Fratelli d’Italia, Urso ha una visione ampia della questione. “Sono successe cose poco comprensibili nell’ultimo anno”, dice. “In primo luogo l’Italia ha impedito il riconoscimento europeo di Juan Guaidó, il leader dell’opposizione venezuelana al dittatore Maduro. Il cui regime è un alleato della Cina. Altrettanto incomprensibile è stata l’opposizione italiana al regolamento europeo sullo screening degli investimenti stranieri in Europa. Una cosa al limite dell’irrazionale. Certamente sbagliata, specialmente visto che i nostri servizi segreti hanno segnalato, in più recenti occasioni, con il governo Gentiloni e anche con il governo Conte, due minacce nuove: quella cibernetica e quella della colonizzazione predatoria da parte di potenze straniere nei confronti dell’industria tecnologica italiana”.
Adolfo Urso parla di “inconsapevolezza del governo”, eppure dalle sue stesse parole sembra venire fuori il quadro di una “intelligenza” che spinge l’Italia verso gli interessi cinesi. “I nostri servizi segreti hanno spiegato che ci sono entità statali, diciamo altri servizi di intelligence, che agiscono nel nostro paese per indirizzare la nomina di certi manager in aziende italiane, manager considerati amichevoli e ben disposti all’apertura nei confronti dei capitali provenienti da questi paesi. Come pure sappiamo bene che ci sono servizi di intelligence che segnalano quali nostre aziende possiedono i migliori brevetti tecnologici, favorendo così l’acquisizione di queste aziende da parte di compagnie controllate da stati stranieri. In questo contesto è molto strano che l’Italia si sia opposta allo screening sugli investimenti stranieri in Europa, ed è altrettanto strano che il nostro sia l’unico paese a non aver firmato la lettera degli ambasciatori europei a tutela delle minoranze etniche e religiose in Cina. Se metti insieme tutte queste cose, ti fai delle domande”.
Tanto più se ci si concentra sulla natura e sul significato della cosiddetta Nuova Via della Seta, il progetto cui pare l’Italia stia aderendo. “La Nuova Via della Seta è stata inserita nel 2017 nello statuto del Partito comunista cinese come obiettivo strategico”, dice Urso. “Nel 2018 il governo di Pechino ha riformulato la Costituzione. E la Via della Seta è stata inserita pure nel preambolo della Costituzione. Questo lo dico per rendere l’idea di ciò di cui parliamo. La finalità è quella di creare una nuova alleanza mondiale alternativa a quella occidentale. Ecco. L’Italia storicamente ha avuto una posizione direi quasi da ‘nazione ponte’ nei confronti dei blocchi contrapposti al nostro. Ma senza mai confondersi su chi fossero gli alleati che condividono i valori della democrazia. Tutti ricordiamo i rapporti con l’Unione sovietica, gli stabilimenti della Fiat in Urss, a Togliattigrad. Ricordiamo bene quando Gianni De Michelis costituì l’Ince con Austria, Ungheria e Jugoslavia. Sappiamo anche quali sono stati i rapporti con il mondo arabo, a cominciare da Andreotti fino a Craxi e Berlusconi. Un atteggiamento sempre di ‘comprensione’ che ha giovato sia all’Unione europea sia all’alleanza atlantica. Il ruolo di ponte dell’Italia è stato un elemento di forza e non di debolezza, per il nostro paese e per i nostri alleati. E questo è dipeso dal fatto che, malgrado ci fossero rapporti economici e di ascolto con i blocchi contrapposti, l’Italia non si sia mai confusa sulla sua natura e sulla sua posizione strategica. Abbiamo sempre saputo chi eravamo ‘noi’ e chi erano gli ‘altri’. Ecco, una cosa del genere si può fare anche con la Cina, oggi. Ma si tratta di un processo che andrebbe portato avanti all’interno di una visione che sia condivisa e comunicata ai partner occidentali. Guardi, la questione è molto seria. I cinesi intendono la Via della Seta come una specie di piano Marshall. Solo che noi non condividiamo gli stessi principi dei cinesi, e i cinesi non condividono i nostri principi di libertà civile ed economica. Quindi qualche preoccupazione sorge. L’Italia non deve perdere l’occasione di diventare una ‘nazione ponte’. Solo che il ponte non deve essere il luogo da dove passano poi le armate che vengono a colonizzare l’Europa”.
La regola diplomatica
La colonizzazione è metaforica, ma neanche troppo. “Vede”, riprende Urso, “l’interconnessione moderna si dipana su tre linee, sulle quali bisogna assolutamente vigilare: il trasporto delle merci, le telecomunicazioni con tecnologia 5G, e le reti di vendita online. Per quanto riguarda il trasporto merci, è evidente che chi ha le chiavi del casello autostradale poi può bloccare l’intero paese. Quindi bisogna porsi il problema di non cedere il controllo delle infrastrutture. Per quanto riguarda il 5G, anche qui è fondamentale il controllo, perché dalla rete 5G passano tutti i dati. E chi ha i dati ha in mano la sicurezza nazionale. E a questo proposito bisogna tener conto del fatto che, secondo la legge cinese, istituzioni, cittadini e aziende, anche quelle private, sono tutti obbligati per legge a condividere con i servizi segreti, se richieste, tutte le informazioni considerate di interesse nazionale. Chiaro, no? S’immagina cosa significherebbe l’orecchio cinese dentro l’infrastruttura delle telecomunicazioni italiane? Infine non bisogna sottovalutare la questione del commercio online. E’ vero che Alibaba, cioè l’Amazon cinese, si prepara a lanciare una rete di vendita in Europa? E cosa succederebbe se questo accadesse? Già sappiamo cosa c’è costato perdere la grande distribuzione in Italia a vantaggio dei francesi. Ma con l’economia online, con la distribuzione via posta, porta a porta, potremmo essere sommersi dai prodotti cinesi. Con rischi evidenti dal punto di vista della competitività delle nostre imprese, dal punto di vista dell’elusione fiscale, e anche dal punto di vista della sicurezza perché diventerebbe difficile controllare che i prodotti venduti dal distributore cinese abbiano standard qualitativi e sanitari di tipo occidentale”.
Cosa ci sia scritto nell’accordo tra Italia e Cina non lo sa nessuno. “Ma pare che, pian piano, si stia svuotando di affermazioni politiche impegnative che documenti simili, firmati da altri paesi con la Cina, invece contenevano. E mi pare che anche il tema delle telecomunicazioni stia saltando. Però ci sono anche altri 40 o 50 accordi collaterali di cui nulla sappiamo. La verità è che tutta questa faccenda è stata affrontata con grandissima superficialità, con tutti questi viaggi in Cina di membri del governo”.
Luigi Di Maio. Ma soprattutto il sottosegretario Michele Geraci. “Non voglio esprimermi su Geraci”, dice Urso. Poi: “Le dico solo questo. Esiste una regola assoluta che vale per i diplomatici. Non devono stare troppo a lungo in un paese. Non più di quattro anni. Vi siete mai chiesti il perché?”.