Conoscevo Maurizio Landini, invece Landini Maurizio co-segretario di Cgil-Cisl-Uil non so bene chi sia, ora tendo a confonderlo con Nicola Zingaretti e non credo di essere il solo…”. Così parlò (scrisse, il 9 marzo) Giorgio Cremaschi, oggi portavoce di Potere al popolo e ieri dirigente Fiom nell’epoca in cui Maurizio Landini, neosegretario della Cgil, era al vertice del sindacato metalmeccanici. Sgomento, pareva, Cremaschi, quel giorno, in particolare all’idea che l’ex compagno di lotta ai tempi di Sergio Marchionne – un Landini No Tav e non concorde con i sindacati Cisl e Uil – non soltanto si mostrasse Sì Tav, seppure con molti distinguo e saldo ancoraggio alla mannaia-alibi della tempistica (il governo non doveva rinviare la decisione, è il concetto), ma desse prova di non partecipazione – con dissociazione – allo sciopero dell’8 marzo, cosa impensabile, forse, quando non ci si faceva mancare un seguito primaverile alle mobilitazioni dell’“autunno caldo”: “Mentre Annamaria Furlan, segretaria della Cisl, ha affermato che non questo è il momento di scioperare”, scrive dunque Cremaschi, “Landini ha spiegato che gli scioperi bisogna prepararli. Non so cosa intenda e non voglio pensare male, visto che tutte le ultime uscite pubbliche della Cgil sono state non solo assieme a Cisl e Uil, ma condivise da Confindustria. Prepararlo con chi? Questo sciopero era proposto e annunciato da molto tempo dal movimento femminista mondiale di ‘Non Una Di Meno’, e la scadenza dell’8 marzo non è proprio di quelle che capitino all’improvviso. Quanto tempo ci vuole per preparare uno sciopero secondo Landini?”.
Da No Tav pare virare sul Sì Tav (criticato dai vecchi compagni), ma che dire delle vecchie idee antimercatiste?
Ma altri sono i problemi per il capo del più grande sindacato oggi, con un governo gialloverde come interfaccia, al di là della percezione avversa del Landini segretario Cgil da parte di chi, con lui, si era affezionato all’idea del “noi non siamo a sinistra di nessuno”, cavallo di battaglia dell’ex capo della Fiom prima, durante e dopo la stagione dello scontro con la Fiat – e qui si apre un altro piccolo caso attorno alla difficoltà di contenere Maurizio Landini in Landini Maurizio: se l’uomo infatti era lo stesso, diverse però erano le parole spese su Marchionne a distanza di qualche anno. Non più “uomo che sta truffando l’Italia” (detto nel 2013) ma uomo a cui poter dire, in accordo con l’ex segretario Cgil Susanna Camusso, “bravo” per le assunzioni del 2015, nel periodo successivo alla fusione che aveva consentito il salvataggio di Chrysler. E nel 2016 Landini dichiarava: “Nessuno nega che la Fiat, prima dell’arrivo di Sergio Marchionne, fosse a rischio di fallimento e oggi no. E nessuno vuole negare le qualità finanziarie del manager. Di tutto questo noi siamo contenti”. Realpolitik? Ne servirebbe molta, ora, a un anno di distanza dalle elezioni che hanno fatto da prodromo all’ascesa governativa del duetto M5s-Lega (allora, una parte della Cgil, a partire dall’ex segretario generale Cgil Susanna Camusso, pur criticando il contratto gialloverde – “reddito di cittadinanza e flat tax si contraddicono violentemente” – diceva che alcune parole d’ordine dei Cinque Stelle – “riforma della Fornero, acqua pubblica, reddito, diritti” erano “battaglie” del sindacato). Realpolitik ora vorrebbe, infatti, un passo ulteriore verso la revisione almeno parziale dell’antimercatismo che ha portato fortuna al Landini metallurgico, nell’ottica del poter fare davvero opposizione, oggi, senza essere guardato soltanto come (l’ennesimo?) uomo-simbolo di una timida resurrezione a sinistra: colui che si fa tribuno, in tv, nelle piazze, sui giornali, attorno a temi rassicuranti per la gauche tramortita dal vento populista-sovranista (fanno fede i primi discorsi di Landini dopo l’insediamento: “Siamo il sindacato di strada, siamo il sindacato del cambiamento, il problema di questo paese è avere due vicepremier che non hanno mai lavorato, andrò al Cara di Bari a dire che sull’accoglienza la politica del governo è sbagliata”). E però, per ora, si vede sulla scena non tanto un Landini pragmatico, neosegretario del principale sindacato, investito del compito di guardare al lavoro anche nel senso di ripartenza produttiva, ma soprattutto l’ex saldatore kombat Landini, già animatore (per una breve stagione) di quella “Coalizione sociale” che, nell’estate del 2015, non fu movimento né partito, ma contenitore effimero di parole che tanta speranza accesero nei cuori intellettuali e nelle enclave professorali che si ergevano a difesa della Costituzione (poi non se ne fece nulla ma ci si consolò presto – con la battaglia per il “no” al referendum renziano). Doveva scendere in campo come un Mario Monti rovesciato, Landini, ma non lo fece mai – da lì tutta una serie di divertiti paragoni mediatici con Luca Cordero di Montezemolo: che fa, ci pensa? Ci ripensa? Si butta? Non si butta? E da quel momento fu chiaro che, per quanto Landini si facesse vedere, in tv, più politico che sindacale, con la felpa da cantiere ma anche con il piglio da papa straniero taumaturgico che fa guarire la sinistra esangue, nessun Landini, effettivamente, si sarebbe messo alla testa del drappello di (eterni?) delusi a sinistra. Fatto sta che, a distanza di quattro anni, ci si ritrova con un Landini che, sul Corriere della Sera, si copre della coperta di Linus sloganistica del “più salario”, “meno tasse”, “maggiori diritti a chi lavora, compreso l’articolo 18”, e che sul reddito di cittadinanza dice e non dice: “Combattere la povertà è una scelta positiva, è sul come che abbiamo le nostre perplessità. Ad esempio vengono penalizzati i migranti, le famiglie numerose. Soprattutto, non basta dare un lavoro a una persona per farla uscire dalla povertà. Si può essere poveri anche lavorando…”. Sull’articolo 18, poi, il neosegretario trova comunanza di intenti (a monte) con i Cinque Stelle che, nel programma elettorale, avevano inserito il ripristino dell’articolo medesimo. E meno male che, a rassicurare i fan del Landini più pane-al-pane (della realtà) e meno lessico cipputiano c’erano anche, lo stesso giorno, le parole in favore dello “sblocca-cantieri”, alla vigilia dell’incontro con il premier Giuseppe Conte: “Non si può più aspettare”, diceva il segretario Cgil, “bisogna far ripartire gli investimenti”, “il sindacato è per la Tav”, “se non ripartono i cantieri rischiano di saltare le imprese”. Ma qualche tempo fa, in un’intervista su Rai3, Landini era parso meno convinto, e vai a capire se la determinazione attuale è indipendente dall’intenzione passata: “Io ho i dubbi e le perplessità che ho sempre avuto”, diceva, “… ma va tenuto conto di cosa pensa la maggioranza della Cgil, che non si è detta contraria alle grandi opere. Pur nell’articolazione delle posizioni all’interno del sindacato, c’è un elemento di maggioranza che dice che i cantieri bloccati vanno riaperti”.
Ieri come oggi, nei talk-show con la maglietta sotto la camicia, ma oggi non può più essere solo “quello che dice no”
Intanto, Landini si ricongiunge al se stesso più intransigente quando si parla di evasione fiscale, suo pallino poi reso virale dalle imitazioni di Maurizio Crozza, e dagli schermi de La7, a “Piazza pulita”, non manca di far sapere che questo “è il paese in cui chi paga le tasse è considerato un coglione” e in cui sarebbe meglio non inneggiare alla “tassa piatta” o “flat tax” che dir si voglia, ché bisogna rispettare “il principio della progressività fiscale” (tantopiù che è stato favorevole alla Tobin tax, tassa sulle transazioni finanziarie). E in quei momenti sembra di rivedere il Landini del 2011-2014, quello che, sulle poltroncine dei talk-show, sempre con la t-shirt sotto la camicia, si inalberava, roccioso, sull’urgenza di intervenire visti “i tempi drammatici” (variante: “i tempi duri”), in un crescendo di pathos arrabbiato che culminava nel j’accuse sui “danni della globalizzazione e della precarietà”. Diverso era, quel Landini, dal Landini 2016, che, come si è detto, si era fatto parzialmente “revisionista” sul Marchionne che un tempo aveva osteggiato, a partire dal primo incontro, quando l’ad Fiat, racconterà poi Landini, aveva pronunciato la frase “dovete dirmi di sì o di no. Io il piano industriale non lo discuto con nessuno”. Non a caso, venuto il momento del ripensamento pro Marchionne, l’ex senatore Pietro Ichino invitava il sindacalista a una riflessione più approfondita sul ruolo del sindacato, pur salutando favorevolmente l’apertura di credito verso l’ex nemico: “Non soltanto Maurizio Landini, ma anche Susanna Camusso, se vogliono essere onesti fino in fondo, devono riconoscere che dalla metà del secolo scorso è sempre stata la Cisl a compiere la scelta giusta e la Cgil a compiere quella sbagliata, a tutti i bivi di fronte ai quali il movimento sindacale si è trovato: negli anni 50 quello dello sviluppo della contrattazione aziendale; negli anni 80 quello del riconoscimento del part-time, poi quello della riforma della scala-mobile; negli anni 90 quello del superamento del monopolio statale del collocamento e della introduzione delle agenzie per il lavoro temporaneo; negli anni 2000 quello del passaggio dal vecchio regime della job property per una metà soltanto dei lavoratori a quello della flexsecurity per tutti…”.
Su Sergio Marchionne aveva (infine) cambiato idea. Con i Cinque stelle vorrebbe dialogare sul ritorno dell’articolo 18
Ma oggi che cosa deve fare Landini? Il politico, il sindacalista? La questione è di quelle che – a Landini – hanno sempre creato ansia: non faccio un partito, non scenderò in campo, diceva a monte della nascita di “Coalizione sociale”, in realtà facendo prove generali di immaginaria campagna elettorale a ogni apparizione sul piccolo schermo, e in quei casi era possibile misurare dalle parole e dalle espressioni il progetto sotterraneo (c’era?) dell’allora segretario Fiom, che, intervistato da Repubblica, nel 2015, diceva, con tono poco sindacale, che Matteo Renzi era “peggio” di Silvio Berlusconi, e che “il sindacato” aveva “sempre fatto politica” e aveva sempre “espresso una visione”, e non era mai stato “sindacato di mestiere”. In altre sedi si diceva ispirato dalla spagnola “Podemos”, parlando altresì di “democrazia dal basso”, ché Beppe Grillo lo aveva in fondo sempre incuriosito (nel 2012, intervistato su Sette da Vittorio Zincone, alla domanda “ma Grillo non è antipolitica?”, aveva risposto “No. E’ la richiesta di un cambiamento della politica. C’è una domanda di partecipazione che va colta. C’è anche un po’ di populismo, ma con Grillo mi piacerebbe confrontarmi…”. Poi è andata com’è andata, e Landini da un lato è rimasto quello che diceva a Marchionne “vede dottore, ci sono momenti in cui tutti sostengono che le cose stiano andando bene. E quelli sono momenti pericolosi. Perché a volte avere vicino qualcuno che dice di no, che mette in guardia, che dice con sincerità, guarda che così secondo me non funziona, può essere utile”; dall’altro, però, Landini a volte sembra uno che ha fatto giri immensi per tornare al punto di partenza, come gli amori che non finiscono di Antonello Venditti. Solo che ora il punto di partenza poggia su un terreno populista e sovranista (e fino a lì per Landini è più semplice) ma forse ancora più antimercatista di quello sognato, negli anni Fiom, dall’ex segretario Fiom. E vai a capire, adesso, nel momento in cui servirebbe un’opposizione non dogmatica, come far combaciare Maurizio Landini con Landini Maurizio.
Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.