Debora Serracchiani è per sempre
A dieci anni dal suo discorsetto contro la “classe eterna del Pd”, l’unica davvero eterna è lei
Roma. Dieci anni e due giorni or sono, tenne un intervento di circa tredici minuti all’Assemblea del Pd. “Abbiamo bisogno di una nuova generazione politica che non è solo questione anagrafica ma questione di mentalità”. Un mese dopo fu candidata alle europee. Poi entrò nella segreteria del Pd, come un diamante: per sempre. Cambiano le stagioni, si sciolgono i ghiacciai, ma Debora Serracchiani è una certezza. Domenica è stata ancora una volta nominata nel gruppo dirigente. Vicepresidente del Pd.
Diceva a luglio del 2009: “Ancora non riusciamo a smettere di guardare l’Italia dallo specchietto retrovisore. Il Pd ha bisogno anche di quelli che un passato non ce l’hanno”. E aggiungeva: “Ora non dobbiamo più essere il partito degli ex”. Parole di grande ispirazione. Sei segretari in dieci anni, Veltroni, Franceschini, Bersani, Epifani, Renzi, Zingaretti. Biografie che si dissipano, storie politiche che si eclissano – passa Anna Finocchiaro, scompare Livia Turco, si mette di lato persino Maria Elena Boschi dopo gli anni rapidi al governo – e una sola eccezione che consente a ciascuno di non sentirsi completamente spaesato: lei, quella dello “specchietto retrovisore”. In questo mondo di convulsi mutamenti e frenetiche frammentazioni, dove più nulla appare stabile e radicato, Debora Serracchiani è in effetti la sola cosa ferma, familiare e ripetitiva su cui ci si possa appoggiare. Da quel famoso discorso del 2009, nel quale criticava Franceschini invocando il cambiamento, non se n’è più andata. Neanche un giro breve in panchina. Mai. Un fenomeno da guinnes dei primati.
Diceva nel 2010: “Serve un gesto di generosità da parte dei vecchi dirigenti. Devono fare un passo indietro. Noi dobbiamo farlo in avanti. Dobbiamo, soprattutto, dimostrare di saperlo fare”. Poi vennero le primarie tra Bersani e Renzi, insomma l’occasione per il famoso passo in avanti. E chi avrà mai votato Serracchiani tra i due? “Sto aspettando la carta delle idee e le proposte”, disse. Un mistero tuttora irrisolto. Tuttavia una delle primissime cose fatte da Bersani, una volta sconfitto Renzi, fu di candidarla alla presidenza del Friuli Venezia Giulia. “Debora è un dono di Dio”, disse il vecchio e tenero Bersani. Lei lo ringraziò così, nel 2013: “Anche prima di questo disastro di Bersani la storia aveva presentato il suo biglietto di saluti a una classe dirigente ormai fuori sincrono”. Effetti? Fu nominata nella nuova segreteria di Epifani. E disse: “Da qui in avanti basta giocare col Pd come fosse un affare di pochi dirigenti”. Chiaro, no?
Così, a proposito di “affare di pochi”, il 9 dicembre 2013 , l’ennesimo nuovo segretario, ovvero il rottamatore Renzi, la conferma nella segreteria. E poiché il Pd “non può essere un gioco di nomenclatura”, ecco che allora nel 2014 Renzi la favorisce pure per l’elezione a vicesegretario, incarico da lei mantenuto fino alla sconfitta elettorale del 2018. Inciampo tuttavia marginale. Di breve durata. Per fortuna infatti adesso è arrivato Zingaretti, il sesto segretario in dieci anni. “Cambio tutto”, ha detto l’altro ieri Zingaretti. E dev’essere per questo che ha subito nominato Serracchiani vicepresidente del partito. Il che è tranquillizzante, dicevamo. Tramontano le Pleiadi, l’Orsa sparisce, persino la luna è coperta da nuvolaglia, ma sappiamo che domani come sempre (e per sempre) nel cielo del Pd ritroveremo la frangetta di Debora.