Il leghista cinese Geraci ci spiega perché “siamo tutti sinoitaliani”
“Ho agito d’intesa con Salvini e Giorgetti. Loro più atlantisti? È un gioco delle parti”. Parla il sottosegretario al Mise
Roma. Esce dall’Aula non appena Giuseppe Conte termina il suo discorso. Il premier ha appena confermato che firmerà il memorandum d’intesa con la Cina, e Michele Geraci, sottosegretario dello Sviluppo economico che dell’accordo con Pechino è stato regista e promotore, attraversa il Transatlantico con l’aria fiera. “Un perfetto gioco di squadra”, esulta. E qui parte il suo inesausto girovagare per i corridoi di Montecitorio: si ferma a parlare con Marianna Madia, raccoglie le pacche sulle spalle dei suoi colleghi leghisti, offre caffè alla buvette, sempre seguito dalla sventurata collaboratrice di Di Maio, cui è demandato l’ingrato compito di tenerlo d’occhio e che a metà giornata, estenuata, sbotterà: “Mi tocca fargli da maestra di sostegno. Si distrae, non segue il dibattito. Gliel’ho detto a Luigi che così è impossibile”. Ma lui, serafico, rivendica il suo successo: “Con Salvini e Giorgetti – dice euforico – ci siamo mossi in perfetta sintonia”.
E insomma, “altroché tensioni”. Geraci se la ride: “Sulla questione cinese, nel Carroccio, non c’è stata alcuna discordia. Semmai un gioco di squadra”. E però Salvini ha più volte esternato i suoi timori per la possibile colonizzazione dell’Italia da parte di Pechino; Giorgetti ha espresso tutta la sua perplessità su una scelta che potrebbe inimicarci il governo americano. “Appunto, un gioco di squadra. O, se volete, un gioco delle parti”, risponde, esibendo con fierezza la spilla di Alberto da Giussano sul bavero della sua giacca, mentre beve un cappuccino.
“Io, su mandato del segretario del mio partito, ho curato la stesura dell’accordo interessandomi agli aspetti commerciali. Dopodiché Salvini, da ministro dell’Interno, si preoccupa giustamente della sicurezza nazionale. E Giorgetti, che è l’uomo che tiene le relazioni con gli Usa, ribadisce l’importanza di restare fedeli ai nostri storici alleati”, insiste Geraci, famoso nei corridoi del Mise per avere imposto a tutti i suoi collaboratori di Via Veneto di abbandonare WhatsApp e di utilizzare WeChat, app di messaggistica accusata di essere controllata dal governo di Pechino, per le comunicazioni riservate. “Si marcia divisi per colpire compatti, e sempre per il bene dell’Italia”, garantisce il sottosegretario, nel mentre che Giulio Centemero, tesoriere della Lega e uomo di vertice del Carroccio, intervenendo in Aula rinnova la vicinanza del paese agli Stati Uniti. Tutta manfrina, insomma, questa apparente presa di distanze del Carroccio nei suoi confronti? “Distanze? In queste ultime settimane ho più volte sentito Salvini, ricevendo da lui perfino dei complimenti per il mio operato”. Guglielmo Picchi, sottosegretario agli Esteri, resta scettico. “Forse era lui a non averlo letto bene. E infatti poi ha corretto il tiro”, sorride, beffardo, Geraci.
E il ghigno gli si irrigidisce appena, quando gli si dice che, negli ultimi giorni, lui è sembrato quasi più filogrillino, che leghista. “In realtà M5s e Lega hanno la stessa posizione: siamo tutti sino-italiani. Il nostro export in Cina vale 13 miliardi, quello della Francia è a 20. Noi, con questo accordo, puntiamo a colmare il divario”. Eppure queste cifre nel memorandum non ci sono. “Ma c’è la base su cui lavorare per potenziare gli accordi commerciali”. Neppure questi sono indicati, nel testo. “Verranno dopo. L’accordo è una cornice politica”. La Francia non ne ha avuto bisogno, per sostenere le proprie aziende nei mercati asiatici. “Ma la Francia è un’economia di stato, dove il governo controlla e guida le imprese. Da noi manca questa pianificazione centralizzata”. Sembra più la Cina, che la Francia, quella che vagheggia Geraci. Senza contare che, parlando di imprese, c’è chi sottolinea il rischio di vedere emissari cinesi insediarsi tra i vertici delle nostre partecipate. “Non accadrà: non ci potrà essere più di un terzo dei membri del cda riconducibile alla Cina”. Non è una garanzia, se è vero che si può ottenere la maggioranza delle quote pur non occupando la maggioranza dei seggi nel cda. E comunque, di nuovo, tutto ciò nel memorandum non c’è. “Be’, ma anche qui è una cornice. Poi bisognerà controllare bene, caso per caso”.
Ed è a questo punto che gli si chiede di dissipare un mistero che è condiviso perfino dai ministri e dai sottosegretari del Carroccio. “Ditemi”, sorride. Come è successo che Geraci, questo cinquantatreenne ingegnere elettrico palermitano riscopertosi banchiere d’investimento nella City senza grande successo, prima di trovare la sua realizzazione nel mondo dell’accademia cinese, sia stato scelto da Salvini a sovrintendere il commercio estero. “Di questo parliamo un’altra volta”, risponde Geraci, subito diffidente, irrigidendosi e abbandonando la tazza del suo cappuccino sul bancone della buvette. Si parla di una sua prima comparsata a Parma, nel “Cantiere” della Lega del giugno 2016. “Mai stato a Parma in vita mia”, smentisce lui. E a Piacenza? “A Piacenza sì”, conferma, riferendosi a una conferenza organizzata dal Carroccio nel luglio 2017 per abbozzare il futuro programma di governo. Geraci ci arrivò viaggiando in macchina, da Milano, in compagnia di Salvini, dopo averlo stregato durante un colloquio all’Europarlamento qualche giorno prima. “No, di questo non parlo”, taglia secco lui, già smarrita l’affabile loquela di pochi minuti prima, infilandosi nella stanzetta riservata al governo, come a cercare riparo.