Elogio della post sinistra
Era facile riconoscere la sinistra nel mondo bipolare, poi ha tentato di adeguarsi ai tempi ma s’è ridotta in frammenti e ora nessuno sa dove sia. Estranea al populismo di governo, latita anche nel mondo Pd. L’autore del “Censimento dei radical chic” ha provato a cercarla e ha trovato un’idea rivoluzionaria
Non so distinguere tra destra e sinistra. L’ho scoperto qualche giorno da un agopuntore cinese: “Lei non sa, vero?”. “Che cosa non so, mi scusi?”. “Dov’è mano sinistra”. “In effetti, no, non l’ho mai saputo, ci devo pensare, ma lei come lo sa che non lo so?”. L’agopuntore mi ha fissato sospirando: “Lo dicono aghi”. Mia madre ha lo stesso problema. Dicono che sia una disfunzione neurologica che qualche volta, ma non sempre, si accompagna a dislessia e discalculia. Per ora non ha un nome, soltanto un acronimo: DDS, Disorientamento Destra Sinistra. Ne soffro come altri milioni, e forse miliardi, di esseri umani che da quache anno – almeno in politica – non riescono più a orientarsi. Destra e sinistra sono punti cardinali come nord sud est e ovest, solo che non descrivono la collocazione geografica, ma la posizione di ognuno rispetto alla storia e a quello che avviene. Lo spaesamento è molto più grave a sinistra. Com’è fatta la destra è chiaro: coerentemente con il mandato di conservarsi e, se mai, regredire, la destra non cambia: Io, Dio, Patria e Famiglia, fede nel leader e difesa dal nemico. La sinistra, invece, è mobile e sfuggente. Una pandemia di DS – che non è il fu partito di Occhetto, ma il Disorientamento Sinistra – è avvenuta nel mondo. Per tentare di ricostituirne i confini viene citata a sproposito, circoscrivendola in insiemi sempre più piccoli: la sinistra dei Parioli, dei Maduro, dei Saviano, dei No Tav, No Tap, No Euro, la sinistra del No, la sinistra del Sì, la sinistra dura e pura, la sinistra del popolo, la sinistra dei salotti, delle élités, dei riders, degli operai, dei radical chic. La sinistra che deve tornare nelle periferie, e che non sa più la strada. Per qualcuno destra e sinistra sono parole vecchie, del Novecento, ma a dirlo sono quasi sempre quelli di destra per prendere voti a sinistra.
Era incominciata come una cosa seria, sacra, pitagorica: bene e male, luce e tenebre, angeli e diavoli, ma poi si svaccò
L’agopuntore ha scosso la testa: “La sinistra lei fa più fatica, signore”. Mi ha sfilato un ago da dietro l’orecchio: “Va meglio, vero?”. Ho alzato la destra, senza esitazioni. Chi è diventato adulto nel Novecento ha abitato un tempo più facile. Era un bimondo popolato di bicose, e noi bipedi implumi si viaggiava in bicicletta, in biplano o sui binari dei treni e dei tram. L’universo era fondato sull’immensa potenza del 2: la coppia era la struttura portante e il motore segreto del mondo. Tutto era doppio: coppie opposti in lotta tra loro – allora si chiamava dialettica – mettevano in moto il divenire e gli davano un senso. Era incominciata come una cosa seria, sacra, pitagorica: bene e male, luce e tenebre, anima e corpo, angeli e diavoli, ma poi si svaccò, specialmente in Italia. Una moltitudine di microscontri – guelfi e ghibellini, pisani e fiorentini, tolemaici e copernicani – sostituì e impersonò l’opposizione originaria finché, a fine Ottocento, lo scontro si stabilizzò nell’accoppiata destra sinistra. In Italia il confine fu tracciato di continuo, decine di volte, fino al ridicolo: monarchia o repubblica, Corriere o Repubblica, Dc o Pci, Don Camillo o Peppone, Coppi o Bartali, Rivera o Mazzola, Milan o Inter, Mina o Vanoni, proletari o padroni, romanisti o laziali, sfruttati o sfruttatori, indiani o cowboy, Usa o Urss, Rai o Mediaset. Si poteva fare confusione, ma la distinzione di base era salda: chi era di destra amava l’ordine e la gerarchia; chi era di sinistra il cambiamento e l’uguaglianza; i primi erano ricchi, in genere; i secondi più poveri; la prima difendeva i padroni (quindi, i forti); la seconda gli schiavi (quindi, i deboli). Si viaggiava su un binario che pareva immutabile, e invece il mondo si trasformava e mischiava incessantemente le carte: per paura di un peggioramento chi voleva il cambiamento si spostò sulla conservazione, chi proclamava l’uguaglianza rivalutò il merito e chi predicava l’ordine si mise a condurre vite disordinatissime. Non ci si ci capiva più niente. Poi, nel 1989, a sinistra i muri crollarono.
Si viaggiava su un binario che pareva immutabile, e invece il mondo si trasformava e mischiava incessantemente le carte
Ho salutato l’agopuntore e sono uscito per strada, ma riuscivo a camminare soltanto diritto. La via di casa era un mistero, figurarsi quella per le periferie. I primi a intuire lo spaesamento furono i test estivi dell’Espresso, negli anni Ottanta. Per sapere se eri di destra o di sinistra dovevi scegliere tra slip o boxer, doccia o vasca, taleggio o stracchino. Ci si aggrappava alle cose, per non cadere nel vuoto. Anche Giorgio Gaber trasformò Destra-Sinistra in un inventario: minestrone, collant, blu jeans, pisciate in compagnia, mortadella e nutella erano di sinistra, mentre alla destra si attribuivano minestrina, reggicalze, giacca, culatello e cioccolata svizzera. Le cose sostituivano le idee, che non c’erano più. Ed erano tutte cose marchiate, un’incessante e insensata sfilata di loghi: dopo Alfa contro Lancia e Coca contro Pepsi, proliferarono Explorer contro Netscape, Microsoft contro Apple, Nike contro Adidas, Google contro Yahoo!, Tim contro Omnitel, iPhone contro Samsung (o Huawei). Mandrie di loghi vagavano allo stato brado, in una pseudo guerra di tutti contro tutti, scoppiata chissà quando e chissà perché, con l’unico scopo di fare più soldi. Il bimondo era diventato un plurimondo. I due blocchi si erano moltiplicati: miliardi di poveri incominciarono a reclamare un posto alla tavola di milioni di altri, le classi non si vedevano più, erano diventate mille oppure nessuna.
Intanto, zitti zitti, i ricchi diventavano più ricchi, e tutti gli altri più poveri. La destra, naturalmente, restò immobile. La sinistra tentò di adeguarsi, di cambiare, si aprì al mercato pur di salvare il progresso oppure si chiuse al progresso pur di salvare il lavoro, ma così facendo si perse, si scisse, esplose in frammenti, e adesso nessuno sa più dove sia.
Per tornare a casa, dovevo imparare da capo a svoltare. Mi sono messo a cercare la sinistra nei programmi dei candidati alle primarie del Pd. Ne ho analizzato la lingua e ho frugato nel lessico delle tre mozioni, senza trovare nulla o quasi. Per limitarsi alla mozione del vincitore, Nicola Zingaretti: su 7.471 parole utilizzate uguaglianza non era mai nominata e nemmeno disuguaglianza, non c’era neppure progresso, ma ho trovato un progressista (Prodi), mancavano comunisti, socialisti, socialdemocratici e derivati, l’aggettivo sociali compariva due volte, come libertà, solidarietà,ingiustizie (giustizia, invece, l’ho trovata tre volte) e diritti (ma mai civili). Di rivoluzione c’era solo quella delle donne, che avevano otto citazioni. I giovani sei. Sette parole derivavano da povertà, ma c’era un solo i ricchi. La parola più evocata era cambiamento (e affini, con 16 citazioni), un segnaposto generico per quello che una volta si chiamava progresso. Ma questa timida fede nell’avvenire era smentita dall’insistenza con cui, nella mozione di Zingaretti, comparivano concetti negativi, a ulteriore dimostrazione che – come diceva quel tale – il futuro non è più quello di una volta. Di fronte a un mondo ostile l’atteggiamento più saggio è la difesa. Destra compariva quattro volte. Sinistra solo due. Rabbia e paura avevano due citazioni, come sicurezza. Protezione una. Il lavoro era citato sette volte, precari e lavoratori due, ma non c’erano operai, contadini, sfruttati, braccianti. E il lavoro, con tutto il rispetto per l’articolo 1, non è mai stato eccitante. Ho rintracciato otto cittadini, ma neanche una cittadinanza, probabilmente per non evocare il reddito di (sia detto in un inciso: cittadinanza è una parola più bella di inclusione perché esprime il riconoscimento di un diritto e non una concessione che viene dall’alto). Quanto al popolo, l’ho letto soltanto due volte, e sempre contrapposto all’élite. Il patrimonio storico e la fonte dell’egemonia culturale della sinistra era evaporato, come neve al sol dell’avvenir. Le vecchie parole della sinistra erano scomparse, senza essere rimpiazzate da parole nuove.
Mi sono messo a cercare la sinistra nei programmi dei candidati alle primarie del Pd. Ho frugato nel loro lessico senza trovare nulla o quasi
Vuoi vedere, mi son detto, che per ritrovare la benedetta sinistra prima bisogna definire popolo e rivolgersi a chi questa parola la usa a man bassa? Vuoi vedere che, davvero, oggi, per essere di sinistra, non potendo più essere popolari, bisogna essere populisti? Con sprezzo del pericolo, mi sono dedicato a scrutare i post e i commenti del sito da cui si accede alla piattaforma delle piattaforme, detta Rousseau. Richiami alla Rivoluzione francese nessuno, alla ghigliottina parecchi. Il complesso armamentario teorico del marxismo – le classi in lotta, l’alienazione, la teoria del plusvalore, il senso e la razionalità della storia, l’idea di un’umanità totale, felice e liberata – giaceva a brandelli, inghiottito e brutalmente semplificato dall’opposizione tra colpevoli e innocenti, nemici e amici, capri espiatori e linciatori. Nei commenti impazzava la famigerata figura del radical chic, etichetta ormai applicabile a chiunque: cooperanti e professori, miliardari e studenti di filologia romanza, accademici e maestri elementari, riccanza e poveranza. Un po’ come nell’Urss si diceva rinnegato. Alla fine, mi son chiesto, ma questo popolo chi definisce esattamente? Quali esseri umani ne fanno parte e quali ne sono esclusi? Chi ne traccia i confini? E’ un concetto che ha ancora senso nel plurimondo?
Nel bimondo il popolo sembrava armonico e compatto, più felice che rabbioso. Mi ci portavano spesso, da bambino, alla Casa del popolo di Montaretto, in Liguria, e mi piaceva tanto. Era squadrata e sgraziata, e lo è ancora, quasi un abuso edilizio, ma da ogni mattone, trave e piastrella trasudava la forza e la voglia di chi l’aveva costruita. Dai muri mi guardavano, eroici e paterni, Che Guevara e Ho Chi Min, Gramsci e Pertini, perfino Luigi Longo, e forse sono ancora lì. Popolo è una parola che ho amato moltissimo, con quel suo suono buffo di polpo rotondo che può accarezzare tutti. E ancora oggi piango quando, in Fuga per la vittoria, il popolo, cantando La Marsigliese, libera la squadra che gioca contro i nazisti. Ancora oggi mi commuovo quando i poveri scoppiano a ridere in quel gran film dimenticato che è I dimenticati di Preston Sturges. Ogni anno riguardo Miracolo a Milano. Mi chiedo, però, sempre più spesso, se la parola popolo non sia un inganno che nasconde in sé un germe autoritario. E’ una parola ambigua perché da una parte designa i poveri, gli esclusi, dall’altra la moltitudine che sostiene il potere. Si distingue dalla élite, ma la legittima. E’ la fonte della rivoluzione, ma anche della conservazione e della restaurazione, e lo è contemporaneamente, di volta in volta, a seconda dei tempi perché è sempre un’élite a creare il popolo, a evocarlo e tracciarne i confini. Quando il popolo ricompare, una nuova élite vuole sostituire la vecchia.
“Popolo” è una parola ambigua perché da una parte designa i poveri, gli esclusi, dall’altra la moltitudine che sostiene il potere
Nella sigla SPQR, Senatus popolusque romanus, il Senato è distinto dal popolo che, però, comprende soltanto una parte dei romani, non le donne e gli schiavi, per esempio. La radice è la stessa di pluralità, più, e pieno. Deriva dal latino populus che a sua volta proviene dal greco plethosπλῆθος che significa “folla”, “moltitudine”, ma esprime l’idea che le moltitudini possano essere definite, delimitate, quasi recintate. Dicono che l’etimologia derivi dalla radice indoeuropea -par o -pal che esprime l’idea di riunire, mettere insieme. Ma per farlo bisogna espellere chi non è compreso. Il popolo sono tanti, mai tutti. E’ la maggioranza che cancella la minoranza, i servi della gleba, i fuori casta e i senza diritti come i privilegiati. E’ una parola che dice noi siamo tutti e gli altri nessuno, oppure nemici che non devono esistere. E infatti l’invito di Marx “proletari di tutto il mondo unitevi” è dimenticato. La storia umana è una lotta per decidere chi decide l’insieme: i confini del popolo, della nazione o della razza, e l’origine del potere. Il contrario di popolo, forse, non è individuo, ma umanità.
Frugare nel populismo, quindi, era una strada sbagliata. Per un eccesso di zelo, ho cliccato controvoglia sul logo della piattaforma ben sapendo che quel figuro, Jean–Jacques Rousseau, è un filosofo che ha suscitato in me, fin da ragazzo, un’antipatia pari soltanto alla noia che provavo nel leggerlo. Tutto l’Emilio mi sono dovuto pappare, a vent’anni, i miei anni più belli. Fu il più reazionario tra gli illuministi, uno che odiava il progresso ancora prima che il progresso iniziasse. La civiltà, per Rousseau, è degenerazione, allontanamento dall’età dell’oro in cui eravamo tutti buoni selvaggi. Perché un altro tema attraverso cui cercare la sinistra è la concezione del tempo e della storia, che può confermare o negare l’idea che gli uomini, individualmente e collettivamente, possano migliorare il mondo in cui vivono. Rousseau ha seminato nella sinistra, soprattutto italiana, un germe di nostalgia per il passato, di rifiuto del presente e di diffidenza nel futuro. Il seme si piantò anche in Marx che descrive la fine della storia – la società senza classi – con tratti molto simili alla sua origine mitica, un’epoca d’oro mai avvenuta in cui la proprietà privata non era ancora stata inventata. L’idea di un tempo ciclico che si riavvolgerà su stesso fino a tornare all’inizio, è implicito anche nel concetto di rivoluzione che significa compimento di un cerchio, non sua interruzione. E così, parallelamente alla fede nel progresso, cioè all’idea che gli uomini possano fare, e non subire, la storia, dentro la sinistra agisce da sempre anche l’impulso contrario, quello a conservare, secondo la concezione pessimista secondo cui il mondo peggiori invece di migliorare.
La fraternità se ne sta lì come un eccetera, a chiudere in rima la terzina, ma senza un’evidente necessità, quasi fosse un rimasuglio spirituale di echi massonici e cristiani, buonisti si direbbe oggi
In Italia questa corrente è più forte che altrove: scorre nella scomparsa delle lucciole di Pasolini (le lucciole ci sono ancora, la Montedison no), nell’Albero degli zoccoli di Olmi, giù giù fino a Beppe Grillo, riposando sull’illusione che una volta si stava meglio, anche se non è vero, e che per salvarsi occorra aggrapparsi o restaurare il passato. All’origine della crisi del modello ciclico o progressivo della storia c’è anche, forse, la fisica moderna che ha trasformato il tempo in un campo della massa, incline a curvarsi, quindi a deformarsi. Non si tratta di rifiutare la nostalgia, ovviamente, ma di non farne un programma politico. Neppure l’ecologia è immaginabile senza un futuro. Nell’Arcadia le fogne non c’erano, figurarsi i depuratori. Ma se la sinistra non è protesa in avanti, verso cosa è protesa? Se si tratta di ritornare al passato è molto più attrezzata la destra.
Insomma, continuavo a girare in tondo, come un elettrone smarrito. Dopo tanto cercare, della sinistra non avevo trovato che tracce confuse. Vagavo smarrito per la città, ubbidendo alla strategia che mi aveva consigliato l’agopuntore: “Se non sai sinistra dov’è, ma destra di più, tu pensa a destra e poi vai parte opposta”. E’ quello che faccio da mesi, forse da anni: se la destra evoca il popolo, io dico élite, se dice patria, io dico mondo, se dice pacchia, io dico tragedia. Però, non mi basta: la sinistra non può essere il riflesso uguale e contrario della destra, una reazione difensiva: ha il dovere di immaginare e raccontare mondi più belli e di provare a costruirli, altrimenti il futuro non c’è. Non può dire “abbiamo sottovalutato la paura”, deve inventarsi un modo civile di garantire la sicurezza, non deve “tornare nelle periferie” perché “le periferie”, giustamente, non hanno voglia e bisogno di ricevere delegazioni: deve immaginarle, le periferie, capire come intende trasformarle e provarci. E deve trovare una parola migliore di “inclusione”, visto che “cittadinanza” e “dignità” sono già state prese. Esiste un’espressione più deprimente di “salario minimo garantito”? Quale pazzo masochista potrebbe galvanizzarsi per un “salario” – parola antica che evoca sudore, fatica, schiavitù, antichi romani e braccianti – che per di più è “minimo”? La crisi della sinistra è anche una crisi linguistica che nasce dall’incapacità di immaginare e nominare il futuro. Chi ha poco oggi e non può sperare niente domani segue chiunque gli prometta qualcosa.
E’ la fraternità che rende universali uguaglianza e libertà, trasformandole in diritti umani che valgono per qualsiasi condizione, intelligenza e paese
Ma anche io ero in crisi. Il mio girovagare si avvolgeva su se stesso. Di svolta in svolta, rifuggendo tutto ciò che puzzava di destra, mi sono ritrovato al punto di partenza. Ero entrato in un circolo vizioso. Infatti ho alzato gli occhi e c’era l’insegna di un circolo del Pd. Poi ho pensato che in un solo caso a un uomo di sinistra è permesso tornare indietro. Quando si perde la strada e ogni decisione si dà nella forma del bivio indecidibile, l’unica cosa da fare è ripartire da capo, cercare l’origine, osservarla e rimettersi in cammino. Dovevo riandare all’istante in cui l’alternativa tra destra e sinistra si manifestò per la prima volta. Era il 5 maggio 1789, ventinove anni prima che Karl Marx nascesse e trentadue prima che Napoleone morisse. A Versailles si radunavano gli Stati Generali per varare la Costituzione e decidere sul veto del re. La struttura dell’assemblea era ancora verticale, com’era sempre stata: il re sedeva in alto, sul trono, la regina al suo fianco, sotto stava la corte, poi il clero e in fondo alla sala, sui seggi più bassi, il Terzo Stato, composto da borghesi, contadini e operai. La discussione durò fino all’11 settembre, ma già il 28 agosto, quando si incominciò la discussione sul veto del re, la forma spaziale, quindi gerarchica, dell’assemblea si era dissolta. La piramide era franata perché i 1.145 deputati avevano preso l’abitudine di raggrupparsi in zone diverse: a destra i 375 favorevoli a mantenere il potere regio di veto, a sinistra i 673 che l’11 settembre avrebbero votato per la sua abolizione. La distinzione tra destra e sinistra implica, insomma, l’uguaglianza politica degli uomini, il loro uguale diritto ad esprimersi sulla società in cui vivono, sulla propria vita. Negare questa differenza, come si fa oggi, significa negare il principio politico su cui si basa la democrazia moderna.
L’agopuntore sarebbe stato orgoglioso di me, avevo trovato la prima parola, ed era lì da sempre, pronta per essere colta: Égalité. Anche la seconda bastava raccoglierla: Liberté. L’uguaglianza è nulla se non si accompagna alla libertà, cioè al diritto di ognuno di essere uno e non di qualcuno. Non può esserci uguaglianza senza libertà. La triade della rivoluzione francese si stagliava maestosa: Égalité, Liberté, Fraternité (motto a cui nel 2015, in un post sul Blogdellestelle, l’attuale sottosegretario di Stato agli Affari esteri Manlio Di Stefano ha simpaticamente aggiunto Affanculé). Chi era stato il genio che aveva accostato le tre parole? Ho svolto più approfondite ricerche. Sull’origine dei primi due termini gli storici sono concordi: compaiono nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo emanata il 26 agosto 1789, due giorni prima che la struttura piramidale del potere crollasse. L’origine di Fraternité, invece, è molto più oscura. C’è chi la fa risalire a un discorso di Lafayette, chi a un testo mai pubblicato di Robespierre, chi a un saggio del 1774 di Marat. E infatti, ancora oggi, la fraternità è misteriosa: se ne sta lì come un eccetera, a chiudere in rima la terzina, ma senza un’evidente necessità, quasi fosse un rimasuglio spirituale di echi massonici e cristiani, buonisti si direbbe oggi. E’ una parola lontana dall’attitudine laica, quasi scientifica, delle prime due. Che ci sta a fare? Serve davvero a distinguere destra e sinistra? Uguaglianza e libertà sono obbiettivi, la fraternità è un’intenzione. Può essere un valore politico?
E’ la fraternità che vieta di recintare il bene dentro i confini della tribù, della classe e della famiglia, confini che escludono e respingono gli altri
Nel corso della sua storia la sinistra ha oscillato tra Uguaglianza e Libertà: quando ha privilegiato la prima ha calpestato la seconda e quando si è sbilanciata sulla libertà ha dimenticato dell’uguaglianza. Nel primo caso ha prodotto infelicità di massa, lavoro schiavo e milioni di morti. Nel secondo ha assecondato gli spiriti animali del capitalismo, cercando di attutirne gli effetti. Per ritornare sinistra deve trovare un nuovo equilibrio. Questo equilibrio è la Fraternità, senza la quale le altre due non potrebbero mai stare insieme. Perché la fraternità è la fatica che permette di non sbilanciarsi, di non preferire la libertà del più forte al diritto del più debole (o scarso, o stupido, o stronzo). E’ lo sforzo di considerare, cristianamente, ogni uomo un uomo, quindi un fratello perché senza considerarsi fratelli è impossibile riconoscere il diritto all’uguaglianza e alla libertà altrui. L’illuminismo fu rivoluzionario in questo: nel contrapporre all’idea di Hobbes che l’uomo fosse lupo dell’uomo, quindi all’accettazione del sopruso come legge della società e della storia, il bisogno di credere e fidarsi degli altri, e di farlo senza appellarsi a Dio, ma come una libera scelta, una scommessa e una speranza, non importa se destinata a fallire. La fratellanza è un’intenzione, non può essere acquisita per sempre. Va creduta ogni giorno. L’utopia della sinistra, per me, è tutta qui. Che poi la rivoluzione francese sia finita nel sangue e che il marxismo abbia circoscritto la fratellanza alla classe sociale, ai compagni, trasformando la storia in uno scontro perenne, non è che la riprova del fatto che senza fraternità, gli esseri umani sono destinati a essere soli e a scannarsi. Oppure a riunirsi in tribù – e un effetto del web è produrre bolle tribali. I fratelli si uccidono dai tempi di Caino e Abele, Romolo e Remo, ma accettarlo come legge della storia – come fa la destra – vuol dire rinunciare alla speranza e all’idea del progresso. Significa accettare che l’umanità sia condannata per sempre.
Mi guardavo intorno nella strada, guardavo i passanti. Non erano belli, sembravano stanchi, incazzosi, distratti. Uno non si sceglie i fratelli che ha. Li può criticare, insultare, ci può litigare, ma può scegliere se fidarsi e correre il rischio, anche se sono rom, nigeriani, tassisti leghisti, elettricisti maschilisti, interisti, fascisti. Sempre più spesso mi ritorna in mente la frase di un romanzo molto bello e pochissimo noto – Il paese dell’acqua di Graham Swift: “‘E non dimenticare’, diceva mio padre, come se si aspettasse che da un momento all’altro partissi per andare a cercar fortuna nel vasto mondo, ‘che qualsiasi cosa tu apprenda sugli uomini, per quanto cattivi siano, ognuno di loro una volta era un bambino piccolo che succhiava il latte della mamma…’”. Svenevole, molto, però ci penso lo stesso. Retorico, anche, lo so, ma senza retorica che ci stiamo a fare nel mondo? E’ la fraternità che rende universali uguaglianza e libertà, trasformandoli in diritti umani che valgono per qualsiasi condizione, intelligenza e paese. E’ la fraternità che vieta di recintare il bene dentro i confini della tribù, della classe e della famiglia, confini comodi che necessariamente escludono e respingono gli altri: il popolo, la Nazione, la razza. E’ la fraternità che fa finire le guerre anche se poi ricominciano, come fece Mandela quando trovò il coraggio di fare la pace. E’ la fraternità che riconosce che gli altri sono altri, non soltanto amici o nemici. Ero a un bivio e, finalmente, potevo scegliere se andare a destra, e accettare l’idea che gli altri siano pericolosi, oppure a sinistra e fidarmi. La sinistra, forse, è la fiducia negli uomini, che è sempre una scelta, un rischio che puoi correre o no. Dopo avermi sfilato l’ultimo ago dal collo, l’agopuntore cinese, scrutandomi, aveva pronunciato la diagnosi: “E’ sempre questione di distribuire energia”, ha detto, “di riequilibrare parte debole e forte del corpo”. Fratelli, per la sinistra riequilibrare le parti vuol dire migliorare l’intero.