“Brexit ricorda che l'Europa è come l'aria”. Parla Moavero
“L’Europa è un acceleratore di crescita e il caos inglese dimostra che troncare legami così profondi è difficile, sbagliato. La Cina? Nessun cambio di alleanze. Sanzioni alla Russia? Saranno confermate”. Intervista al ministro degli Esteri
L’Europa e la Cina. L’Italia e la Brexit. Il cambiamento e le elezioni. La Francia e i litigi. L’isolamento e la diplomazia. E poi una domanda su tutte: ma il governo italiano si sta rendendo conto oppure o no di cosa rischia la settima potenza industriale del pianeta a cambiare le sue alleanze, a isolarsi dal G7, a rompere gli equilibri della Nato, a fare di testa propria sulle grandi crisi internazionali e a fare ogni giorno un passo in avanti per avvicinarsi ai quadranti asiatici e russi e allontanarsi dai valori non negoziabili del Patto atlantico? Abbiamo raccolto un po’ di domande, un po’ di dubbi e un po’ di preoccupazioni relativi alla traiettoria, a nostro avviso pericolosa, imboccata dal governo del cambiamento su alcuni temi che si trovano a cavallo tra la geopolitica, l’economica e la politica estera e siamo andati a parlarne a lungo alla Farnesina con il ministro degli Esteri Enzo Moavero, che ha accettato con sportività di dialogare con il Foglio nonostante la distanza piuttosto accentuata tra la linea di questo giornale e la linea del governo. La nostra discussione con Moavero comincia a partire dai temi europei e la prima domanda un filo maliziosa che rivolgiamo al ministro riguarda un tema piuttosto centrale per un governo che da mesi non nasconde il suo profilo euroscettico.
Ministro Moavero, come spiegherebbe a chi è ancora scettico sull’Europa, anche all’interno del suo governo, perché in prospettiva l’Italia non ha bisogno di meno Europa ma di più Europa?
“Ragionare in termini di più Europa o meno Europa non inquadra bene la situazione. L’Europa di oggi ha bisogno di un grande tagliando perché si sono cumulate numerose questioni irrisolte che scontentano i cittadini. Il tagliando è necessario ma può farsi in diversi modi, non completamente riassumibili, se non agli estremi, con l’idea di ‘più Europa’ o ‘meno Europa’. Tradizionalmente, si è ragionato in termini di sempre maggiore coesione e per molti, in prospettiva, di una meta federale. Del resto, la parola ‘federazione’ è presente nella dichiarazione di Robert Schuman che da inizio al processo d’integrazione europea. Tuttavia, e non da oggi, in Europa si confrontano due visioni: una, favorevole a trasferire ulteriori competenze dagli Stati verso l’Unione europea e l’altra contraria. Anzi, chi si riconosce in questa seconda posizione, spesso, pensa che sia opportuno riportare determinate competenze e funzioni nell’alveo dei governi nazionali. Attribuire quest’ultima visione unicamente alle forze politiche che definiamo ‘sovraniste’ non penso sia esatto. Dipende anche dai sentimenti generali dell’opinione pubblica nei diversi paesi Ue. Basta vedere, per esempio, determinate tesi dei governi olandesi, generalmente reputati europeisti. La stessa Corte costituzionale tedesca, nelle sue nodali sentenze sui trattati di Maastricht e Lisbona, indica con meticolosità una serie di limiti all’aumento delle competenze dell’Unione, rispetto a quelle degli Stati e spiega che i trattati attuali non sono affatto federali e che per una vera federazione europea servirebbero nuovi e diversi trattati”.
Il ragionamento, o meglio la cornice, è chiara, ma a oggi, chiediamo ancora a Moavero, quale di queste due linee è più vicina al governo di cui lei fa parte?
“Io credo il nostro governo, come quasi tutti i governi degli Stati Ue consideri indispensabili rilevanti riforme negli assetti di funzionamento dell’Unione. In particolare, viviamo con profondo disagio la sostanziale latitanza europea di fronte agli epocali flussi migratori, motivata dai vari egoismi nazionali. E’ un significativo esempio di fallimento dell’Europa, pur in presenza di strumenti operativi e decisionali appropriati. Anche quando è stata colpita dalla crisi economica e finanziaria, l’Ue ha avuto bisogno di tempo, troppo, per trovare la via d’uscita e comunque, il lascito è un’accentuazione delle diseguaglianze, sia tra i diversi paesi, sia all’interno dei singoli paesi. Rispetto a questi problemi, ci si deve porre un serio interrogativo di efficacia e di capacità di iniziativa. Le normative comunitarie vanno integrate e per farlo occorre una convergenza di volontà politica fra i governi nazionali che sovente manca, perché prevalgono le fortissime resistenze e le divisioni”.
L’idea che sia necessario un bilancio condiviso e quindi un ministro dell’Economia dell’Ue è una questione dirimente per il futuro dell’Europa: quella sul bilancio unico è una battaglia che questo governo ha intenzione di portare avanti?
“Quando, oggi, si parla di bilancio europeo si rischia di confondere due temi distinti. Il primo, è il negoziato in corso sul Quadro finanziario pluriennale che fissa gli elementi base degli annuali bilanci Ue per il periodo dal 2021 al 2027. Il secondo, attiene alla discussione aperta sulla creazione di un bilancio ad hoc della cosiddetta Eurozona. Il dibattito politico sul primo tema è importante perché riguarda le risorse per far funzionare l’Unione e le sue politiche pubbliche e dunque, il dare/avere di ciascuno Stato. Di frequente, si sottolinea che l’Italia è il terzo contributore netto al bilancio europeo e ci si chiede se paghiamo troppo. Al riguardo, non va dimenticato che, al di là del saldo meramente contabile, traiamo un enorme vantaggio dall’apertura del mercato interno unico europeo di cui siamo fra i primissimi fruitori, grazie alla rilevanza della nostra economia nei vari settori produttivi e alla nostra vocazione esportatrice. Vantaggio non nuovo, perché una parte considerevole del miracolo economico italiano degli anni sessanta fu determinata dalle esportazioni di merci verso il nascente mercato europeo senza dazi. Nell’ambito del negoziato abbiamo sollevato la questione delle entrate che sono composte, soprattutto, da versamenti obbligatori degli Stati. Noi sosteniamo che il bilancio Ue debba essere alimentato da genuine risorse proprie, per esempio: emettere titoli di debito europeo, per raccogliere sui mercati risorse per finanziare grandi investimenti di interesse comune; o istituire tasse europee che gravino solo su chi oggi elude il fisco, approfittando dei regimi tributari fortemente agevolati di certi Stati”.
Insistiamo su questo punto: ma il governo italiano pensa che il bilancio della zona euro sia un obiettivo per il quale vale la pena combattere?
“Sul tema del bilancio dell’Eurozona si sono succedute differenti ipotesi. Inizialmente, l’idea era che servisse a controbilanciare gli shock asimmetrici delle crisi economiche che non colpiscono tutti nella stessa maniera. Invece, se guardiamo alle recenti proposte franco-tedesche, il bilancio dell’Eurozona dovrebbe servire, perlopiù, a sostenere le riforme strutturali che l’Unione richiede ai suoi Stati membri per migliorarne la competitività. Se questo diventa l’obiettivo principale, bisogna riflettere bene, anche perché l’incentivazione di tali riforme dovrebbe interessare tutta l’Unione e non solo l’Eurozona. Nel contesto dell’Eurozona, inoltre, è prioritario dotarsi di strumenti efficaci per prevenire e subito contrastare le crisi economiche e finanziarie, tutelando opportunamente il flusso del credito e gli enti creditizi e finanziari, nell’interesse dei risparmiatori e degli imprenditori. A livello di Unione e delle sue politiche pubbliche e iniziative, non si può rinviare di continuo una soluzione articolata rispetto alle migrazioni, inclusiva di investimenti significativi nei paesi d’origine dei migranti. Inoltre, occorre affrontare meglio questioni sensibili come la sicurezza, compresa quella cibernetica e di internet, e il contrasto del terrorismo e alla criminalità internazionali”.
Il governo di cui Moavero fa parte ha parlato spesso di voler cambiare il Trattato di Dublino ma le alleanze costruite finora in Europa sembrano andare in una direzione opposta. Ovvero: lasciare il trattato così com’è ancora a lungo. Se cambiare il trattato è ancora una priorità di questo governo, in che modo l’esecutivo di cui Moavero fa parte ci proverà nei prossimi mesi?
“In questi anni di stallo abbiamo posto un problema politico che va oltre questa riforma. Il regolamento di Dublino disciplina la concessione del diritto di asilo nell’Ue. Quindi uno spicchio dell’ampio spettro di questioni che riguardano i flussi migratori; per esempio, circa il sette per cento dei migranti arrivati in Italia avevano il diritto all’asilo. Il sistema Dublino pone tutti gli oneri a carico del paese di primo arrivo dei migranti: deve accoglierli, deve verificarne l’identità, deve fornire loro documenti, deve stabilire se hanno o non hanno il diritto di asilo e, nel secondo caso, deve procedere a rimpatriarli nei paesi d’origine, sempre che esistano accordi a tal fine. Sono oneri gravosi e non è equo che dipendano dalla geografia o dalle rotte scelte dai trafficanti di esseri umani. Cambiare Dublino richiede un voto a maggioranza, che per ora non c’è, bisogna insistere. Peraltro, la soluzione per i migranti si intreccia con il bilancio Ue: se vogliamo ridurre i flussi dobbiamo migliorare le condizioni socio-economiche nei paesi di origine e dunque, stanziare più fondi per gli investimenti necessari”.
Moavero ci sta dicendo che una soluzione possibile per superare le regole di Dublino potrebbe essere quella di fare accordi tra i singoli stati?
“E’ più complicato. Dire che solo alcuni paesi possono partecipare ai flussi migratori è davvero un’ultima ratio, sarebbe una sconfitta per l’Europa. Con filosofia, si potrebbe pensare che anche su altre questioni difficili dell’Ue ci sono voluti molti anni per un risultato soddisfacente. La cosa che preoccupa è che i cittadini pensino che la soluzione possa essere nazionale: invece, senza un’intesa europea, tutto è più arduo. La contrapposizione degli interessi degli Stati dovrebbe finire e sarebbe bene mettersi lealmente a lavorare insieme. I migranti non vanno lasciati nelle mani dei trafficanti e in particolare, ai rifugiati con diritto di asilo vanno garantiti appositi corridoi umanitari sicuri”.
Finora, facciamo notare a Moavero, l’Italia sull’immigrazione ha spesso dato l’impressione di fare gli interessi prima di tutto di alleati sovranisti come Viktor Orbàn. Domanda maliziosa: ma non sarebbe il caso di ribadire invece in ogni contesto possibile che l’Italia non dovrebbe avere nulla a che fare con il modello delle democrazie illiberali. Come lo si può spiegare a chi invece con quelle democrazie illiberali sembrerebbe avere un feeling speciale?
“Si può spiegare guardando la realtà. In tema di migrazioni, ci sono Stati europei contrari anche all’accoglienza dei rifugiati. L’Italia invece i rifugiati li accoglie. Non dimentichiamolo e non facciamo confusioni sull’intento di scongiurare fattori di richiamo indebito che spingono tante persone a partire alla ricerca di migliori condizioni di vita, affidandosi a biechi trafficanti che li trascinano in tragedie inaudite. In materia di migrazioni va fatta molta attenzione. Attrarre flussi incontrollati in Europa, anche non deliberatamente, alimenta tanti circuiti illeciti e chi arriva così finisce, sovente, in un mercato di sfruttamento e lavoro nero. In ogni caso, la democrazia liberale è il modello nel quale la Repubblica italiana si riconosce. E’ scritta nella nostra Costituzione. Quanto ai riferimenti internazionali, io stesso ho più volte ribadito che i pilastri sono tre: Onu, alleanza atlantica e integrazione europea”.
A proposito di democrazie liberali e democrazie non liberali interrompiamo per un attimo il filo della nostra discussione con il ministro per mostrargli una particolare cartina dell’Europa. La cartina è quella diffusa negli ultimi giorni da alcuni giornali e fotografa gli stati che hanno accettato di firmare il memorandum sulla via della Seta (Bri) con la Cina: Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Ungheria, Croazia, Slovenia, Bulgaria, Grecia. A parte il Portogallo, sono tutti paesi che oltre a non far parte del G7 si trovano geograficamente più rivolti verso l’est che verso l’ovest. E’ solo un caso, chiediamo al ministro Moavero, che l’Italia abbia messo un piede in questo campo da gioco, rompendo l’unità del G7?
“La risposta banale viene dalla geografia e dalla storia. La Cina è all’Est dell’Europa ed è normale che i paesi dell’Europa più prossimi all’oriente guardino anche alla Cina. Non facevano così gli Stati della penisola italiana prima della scoperta dell’America? Inoltre, l’Italia tra le grandi economie europee soffre di un divario negativo nell’interscambio con la Cina. Il memorandum offre una cornice di potenziale intensificazione dei rapporti con la Cina, come è nella vocazione antica e recente del nostro paese. Tutto questo, naturalmente, va coniugato con la rigorosa tutela della nostra sicurezza nazionale”.
Interrompiamo il ministro facendogli notare che nessuno mette in discussione che il nostro paese debba potenziare l’interscambio con la Cina facendo affari migliori. Ciò che è in discussione è che l’Italia ha firmato un accordo che come ha segnalato la Nato, l’Unione Europea e il consiglio di sicurezza nazionale americano mette a rischio la nostra sovranità, specialmente sul fronte delle telecomunicazioni. Davvero, ministro Moavero, è tutto normale quello che è stato fatto?
“Il memorandum non è un atto che determina, di per sé, obblighi giuridici, è una base per possibili accordi, tutti da decidere e valutare. E’ ovvio e imperativo che il governo tuteli la sicurezza pubblica, un dovere verso i cittadini e verso il nostro sistema di alleanze. Per questo, il governo ha già esteso, con un atto giuridicamente vincolante, l’apposita normativa detta dei ‘golden power’. Questo fornisce un quadro legislativo di sicuro affidamento. E’ essenziale comprendere che gli elementi legati alla sicurezza hanno e avranno sempre la precedenza rispetto agli affari”.
Davvero non l’ha impressionata il fatto che Nato, Commissione europea e Stati Uniti siano intervenuti in modo forte e critico per condannare la scelta fatta dall’Italia sulla Bri?
“La preoccupazione nel quadro della Nato e dell’alleanza con gli Usa è legata agli aspetti di sicurezza in senso stretto ed è una giusta preoccupazione di cui ci facciamo garanti con le nostre leggi, anche di recente rafforzate. Nel caso dell’Ue e dei paesi europei bisogna guardare in faccia alla realtà. È vero che l’Ue risponderebbe meglio come contraente alla Cina se agisse in modo coeso. Tuttavia, anche qui, non è stata elaborata un’univoca linea comune e vincolante sulla Cina: al contrario, ogni Stato intrattiene i propri rapporti come ritiene e la competizione intraeuropea a trattare affari con Pechino esiste. In ogni caso, sia ben chiaro, l’Italia partecipa a tutti i tavoli Ue relativi alla Cina ed è favorevole a una linea comune, purché equilibrata e realista”.
Ci spiega per quale ragione i nostri alleati non devono preoccuparsi della possibilità che un paese come la Cina, via 5G, possa prendere il possesso di molti dati italiani attraverso un’egemonizzazione del settore delle telecomunicazioni?
“Non deve preoccuparsi nessuno, perché siamo coscienti, motivati a tutelare i nostri cittadini, le nostre imprese e a essere leali alleati. Invito ancora a leggere bene le nuove regole dei “golden power”.
Perché l’accordo, a differenza di molti altri paesi che hanno firmato lo stesso memorandum, non l’ha firmato la Farnesina ma il ministero dello Sviluppo?
“Perché è un’espressione di intenti commerciali e quindi, il suo contenuto e la guida politica ricade nelle competenze del ministero dello Sviluppo Economico. Per questa ragione lo ha firmato il ministro dello Sviluppo Economico responsabile per commercio con l’estero, materia distinta dalla politica estera, in senso proprio”.
Insistiamo: perché l’Italia poche settimane fa è stato l’unico paese a opporsi alla proposta per aumentare i controlli preventivi sugli investimenti strategici?
“Come ha chiarito in una dichiarazione il sottosegretario al ministero dello Sviluppo Economico Geraci che rappresentava l’Italia in quell’occasione, questo regolamento prevede uno scambio di informazioni tra gli organi statali che vigilano sugli investimenti diretti dall’estero e si è ritenuto che fosse troppo blando. Non siamo contrari, ma se l’Ue vuole una vera politica comune per detti investimenti, dovrebbe dotarsi di una regolamentazione ben più vigorosa, magari sul modello della nostra golden power”.
Ministro Moavero, ma si rende conto del fatto che anche sul dossier cinese l’Italia ha fatto un passo in avanti per isolarsi dai tradizionali alleati europei?
“L’Ue non è un’unione così stretta e coesa da poter far dire, con fondamento, che qualche Stato sia isolato dagli altri. Intanto, le situazioni variano moltissimo a seconda delle materie discusse. Inoltre, per restare nella metafora, oggi l’Europa si configura più come un insieme di isole, un vero arcipelago, piuttosto che come quell’insieme quasi omogeneo che qualcuno, talvolta, vuol pensare che sia”.
Ministro, scusi, ma l’Italia con chi sta oggi in Europa?
“Abbiamo regolari contatti e riunioni con gli Stati del Mediterraneo e dei Balcani. Abbiamo firmato, quest’anno, degli innovativi accordi di consultazione strutturata sui temi di politica estera, con Belgio e Paesi Bassi, disciplinando regolari riunioni trimestrali e sistematici contratti; stiamo per fare lo stesso anche con il Lussemburgo. Faccio notare che così saremo quattro, su sei, degli originari fondatori delle Comunità europee a lavorare in strettissimo collegamento. Gli altri due paesi fondatori sono la ben nota, pressoché indissolubile, coppia franco-tedesca, una costante dagli inizi del processo d’integrazione europea. La fascinazione frequente che induce a auspicare di allargare questa coppia, temo sia destinata a non funzionare davvero fino in fondo. Per la nostra collocazione geografica le sinergie più naturali sono mediterranee e per la storia, con i tre cofondatori del Benelux. Senza scordare ogni altra convergenza possibile su determinati temi con tanti altri partner europei, come accade regolarmente nelle variabili geometri dei negoziati in seno all’Unione”.
A proposito di isolamento: cosa insegna la Brexit ai teorici delle soluzioni semplici ai problemi molto complessi?
“Brexit insegna molto: non a caso Hitchcock è nato in Inghilterra ed è un grande regista europeo, una suspense di questo genere non l’avremmo mai potuta immaginare. Le grandi complessità dimostrano che gli anni della Gran Bretagna nell’Ue non sono passati invano. Si è compresa appieno l’interdipendenza che si crea tra i paesi membri dell’Unione, quali che essi siano. L’Ue diventa come l’aria: c’è, è necessaria, anche se non la vediamo. I britannici avevano l’idea di tenere per sé tutto ciò che c’era di positivo dell’Unione, a cominciare dall’accesso libero al mercato europeo. Allo stesso tempo, volevano troncare le cause base del loro voto di uscita, soprattutto legati alla libertà di circolazione delle persone. Ma è molto difficile frazionare gli assetti Ue. L’elemento che sta creando maggiori problemi è la questione irlandese, che può far precipitare decenni di convivenza pacifica, faticosamente raggiunta in quelle terre. Brexit insegna che tagliare legami positivi e capillari è difficile e probabilmente sbagliato, perché l’ampiezza del libero mercato Ue è un grande fattore e acceleratore della crescita e dell’occupazione”.
Nigel Farage ha chiesto all’Italia di porre il veto sulla proroga dell’Articolo 50. L’Italia cosa farà?
“Io sono convinto che all’Italia non convenga proprio e il governo ha confermato questa posizione”.
Spezziamo il ritmo della conversazione con il ministro Maovero leggendo il tweet di un giornalista della Rai, Giancarlo Loquenzi, che qualche giorno fa ha sintetizzato con efficacia l’ambiguità del nostro governo anche su un altro tema importante di politica internazionale: il Venezuela. Tweet di Loquenzi: “Ieri un aereo russo con a bordo 100 soldati è atterrato a Caracas per sostenere il regime di Maduro. Mi ricordate noi da che parte stiamo?”.
“La lettura – dice Moavero – non è esatta. Ho detto formalmente in Parlamento che l’Italia non riconosce la legittimità dell’elezione di Nicolas Maduro a presidente del Venezuela, mentre riconosce la legittimità delle elezioni per l’Assemblea Nazionale. Non abbiamo reso esplicito un riconoscimento di Juan Guaidó come presidente, perché è una questione interna del Venezuela. Inoltre, non siamo affatto sicuri che contribuire dall’estero a contrapporre due personalità sia il modo migliore per favorire un processo di riconciliazione che scongiuri derive conflittuali e porti velocemente a nuove e legittime elezioni. Per questo siamo stati più prudenti, spiegandolo agli alleati”.
A proposito di alleanze: l’Italia, a settembre, ha scelto di rinnovare le sanzioni alla Russia. Lo rifarà anche alla prossima occasione?
“L’Italia le ha sempre rinnovate. Le sanzioni alla Russia non sono un modo per prendersela con Mosca, sono uno strumento, un mezzo, non un fine. Sono una misura riconosciuta dal diritto internazionale a fronte di forzature o violazioni”.