La Castelli ammette che l'Europa non verrà stravolta il 26 maggio
La viceministro spiega che l'Italia resta sul "sentiero stretto". Il bagno di realtà del governo riaccende le tentazioni dei No-Euro
Roma. E venne, infine, anche il ravvedimento, o quantomeno la presa d’atto che la realtà concreta delle cose non si piega alle velleità della propaganda. “Anche io non credo che cambierà moltissimo”, dice Laura Castelli a proposito degli equilibri politici dell’Europa che verrà dopo le elezioni del 26 maggio. “Come affrontiamo le problematiche europee? Nella direzione con cui è stato fatto finora: con un dibattito”, ha spiegato la viceministro all’Economia del M5s durante un convegno sulle “Idee per la nuova Europa” svoltosi lunedì a Montecitorio. Una constatazione onesta, tutto sommato: di chi, dopo nove mesi sudati tra le carte e le rogne di Via XX Settembre, riconosce che gli azzardi, specie in campo economico e finanziario, sono assai sconsigliabili. “In alcune circostanze non si può fare esattamente quello che si vuole, e quando uno governa lo mette anche in conto”, ha detto la Castelli davanti a un rassegnato Claudio Borghi, che la ascoltava senza contraddirla. E in un attimo, in questa ammissione d’impotenza, è sembrata svanire l’ansia spasmodica per delle elezioni che sembrava dovessero sconvolgere tutto. E invece – vuoi perché non è detto che l’eterogenea pattuglia euroscettica condizionerà nel profondo la maggioranza del Parlamento, vuoi perché non è detto che le contraddittorie rivendicazioni sovraniste si tradurranno in un progetto coerente di riforma della politica della Commissione – non sarà così.
Del resto, un richiamo al realismo il governo gialloverde lo aveva fatto già qualche settimana fa, quando la commissione Bilancio della Camera guidata dallo stesso leghista Borghi, era stata chiamata a esprimere un parere sulla legge Eruopea. Era il 26 febbraio, infatti, quando il capogruppo della Lega in commissione, Giuseppe Bellachioma, tuonava contro gli euroburocrati prospettando “il radicale cambiamento del quadro politico continentale”. Poi, dopo l’intervento del Mef, quelle e altre affermazioni vennero corrette, e alla fine la commissione Bilancio si limitò a parlare di un “possibile cambiamento del quadro politico che potrebbe verificarsi” dopo il 26 maggio. “Ci sono dei percorsi che il governo precedente aveva seguito, nel dibattito con Bruxelles, che ricalcano le strade che oggi noi continuiamo a fare”, ha spiegato lunedì la Castelli. “Alcuni dibattiti importanti erano già stati affrontati, e noi continuiamo a farli”. Come a dire che non ci sono grandi alternative. “La modalità è quella utilizzata sul campo dell’immigrazione. Quindi tenerli al tavolo fino alle quattro di notte e dire che non possiamo essere lasciati soli”. Siamo insomma alla solita, abusata, retorica dei pugni sul tavolo. E d’altronde “il sentiero è stretto”, ha ammesso la Castelli, citando forse inconsapevolmente il libro di Pier Carlo Padoan.
E qui sta, però, il problema. Preso atto che è illusorio attendersi che l’Ue, da giugno, ci conceda di ignorare i vincoli di bilancio, cosa pensa di fare il governo per fronteggiare un deficit mostruoso composto da 23 miliardi di clausole di salvaguardia e da un’altra decina di miliardi di mancata crescita? La Castelli ha invitato ad attendere la stesura del Def, che dovrà essere licenziato entro il dieci di aprile. E però, proprio di fronte a questa impossibilità di manovra che ora i grillileghisti riconoscono, il rischio è che torni forte in alcuni di loro la voglia di forzare fino in fondo le regole, vagheggiando di nuovo le tentazioni mai davvero sopite di rimettere in discussione la moneta unita. Proprio parlando del “sentiero stretto” descritto da Padoan, il leghista Alberto Bagnai, l’8 marzo scorso, riconosceva all’ex ministro tutti i suoi meriti: “All’interno di questo fantasma ideologico, Padoan ha combattuto una battaglia eroica, ai massimi livelli di competenza e sottigliezza”, diceva il presidente della commissione Finanze del Senato. Aggiungendo: “Il punto però è che siamo in un contesto radicalmente sbagliato”. Quello dell’euro, appunto.