Le colpe agli altri e l'Economia a noi. (Pensieri futuri di Salvini)
Che cosa c’è dietro certe prese di distanza dei leghisti da Tria (“non è della Lega”). La crisi, le elezioni rischiose e il rimpasto
Roma. Mercoledì era il presidente della commissione Bilancio della Camera Claudio Borghi a sottolineare, in diretta su La7, che Giovanni Tria “non ha la tessera della Lega” e ad assegnare, con argomenti ricavati dalla storia recentissima della formazione del governo, l’attuale ministro al partito del Quirinale: “La nostra scelta era Paolo Savona, poi è successo quel che è successo, è stata presentata una rosa di nomi graditi al Quirinale e il Quirinale ha scelto Tria”. Una versione, quella di Borghi, in parte fuori linea rispetto alle cronache di quei giorni, ma significativa, come vedremo, dell’oggi.
Giovedì anche il sottosegretario leghista al ministero dello Sviluppo economico Dario Galli rimarcava in tv che Tria no, “non è della Lega”, che ha “un’autorevole indipendenza intellettuale”, ma che “ridurre le tasse è nel programma di governo e dunque…”. Osservazioni che dicono qualcosa in più rispetto alle pressioni esplicite di Matteo Salvini che, in questo caso e solo in questo, all’unisono con Luigi Di Maio, reclama che il ministro firmi rapidamente il decreto banche. Le prese di distanza di Borghi e Galli sembrano alludere infatti a una rottura più profonda delle dinamiche interne al governo Conte che ha sempre visto la Lega enfatizzare l’affinità con Tria su flat tax e investimenti pubblici o in difesa dei tecnici del Mef spesso nel mirino dei Cinque stelle. Ma soprattutto, incrociate con le riflessioni che percorrono la Lega sotto traccia, fanno intravedere un’ipotesi alternativa sia a quella della fine anticipata della legislatura sia a quella della prosecuzione forzata del governo, anche (o soprattutto) in presenza di cattivi risultati dei Cinque stelle magari con qualche aggiustamento nella composizione dell’esecutivo. Un’ipotesi sulla quale, in queste settimane fluide, di incertezze, scenari, sondaggi, secondo un’autorevole fonte leghista del governo starebbe riflettendo Salvini: la possibilità di un rimpasto più ampio con il ministero dell’Economia come obiettivo fondamentale. Certo i profili a disposizione – Giorgetti, Garavaglia o lo stesso Salvini come arriva a immaginare qualcuno – sarebbero a quel punto pochi. “Le cose più tipicamente leghiste come legittima difesa, decreto sicurezza, chiusure dei porti ecc. le abbiamo fatte… il problema ora è la politica economica, dobbiamo poterla fare noi”, osserva la fonte. Dunque, è il corollario, via XX settembre deve essere della Lega.
Le controindicazioni sarebbero ovviamente ben chiare a Salvini, viste le previsioni sui conti, i numeri squadernati dal report “Scenari geoeconomici” del capo economista di Confindustria Andrea Montanino. Ma sull’altro piatto della bilancia c’è la consapevolezza, osservano nella Lega anche quelli che più tifano per uno strappo dal M5s, che una crisi post voto del 26 maggio sarebbe sostenibile per la Lega e forse persino auspicabile, solo a patto che siano Di Maio o Conte o Casaleggio ad aprirla. “Chi rompe il contratto rischia di farsi male”, è il ragionamento. “E che comunque votare a settembre sarebbe rischioso, si dovrebbe fare una campagna elettorale con lo spread alle stelle”, prevede chi preferirebbe la responsabilità della manovra a un ritorno alle urne. Chiusa la finestra per accorpare politiche ed europee, una crisi post voto porterebbe a un poco praticabile appuntamento elettorale estivo. Nel 2018 lo usò Mattarella come minaccia per far nascere il governo. Il piano B o C (ma secondo qualcuno A) allora, con un occhio all’agenda di politica economica fra Def, note di aggiornamento e legge di bilancio, e in presenza ovviamente di un risultato sopra il 30 per cento per la Lega alle europee, potrebbe prevedere la rivendicazione della politica economica compresa. Ma potendo marcare una discontinuità dall’èra Tria, addebitare ai grillini lo stallo. E occhieggiare oltreatlantico forti dei distinguo durante la visita romana di Xi Jinping e contemporaneamente sperare in maggiori aperture negoziali da una ipotetica nuova Commissione europea. Scenari e dilemmi.
Equilibri istituzionali