Perché in Italia si è parlato tanto di ius soli, restando immobili
Lo studioso Guido Tintori spiega i danni causati dalla sovrapposizione dell’elemento identitario e di quello tecnico-giuridico
Roma. Di ius soli si era tornati a parlare, dopo l’avvento del governo gialloverde, in contrapposizione con le parole e le azioni del ministro dell’Interno Matteo Salvini. Tanto più di ius soli si parla ora, a margine del “caso Rami”, il ragazzino di origine egiziana che, con l’amico Adam, ha sventato la strage sul bus dirottato a Milano. Rami e Adam avranno la cittadinanza “per merito”, ma il problema non è risolto, anzi. Lo ius soli è argomento divisivo non soltanto tra governo e opposizione, ma all’interno del governo, all’interno dell’opposizione e addirittura all’interno del Pd (vedi polemica Renzi-Gentiloni). Dove si sta andando, dove si può arrivare? E quanto pesa l’elemento ideologico nel rallentamento di qualsiasi eventuale processo di riforma della legge sulla cittadinanza che vige dal 1992?
Guido Tintori, ricercatore presso il FIERI (Forum internazionale ed europeo di ricerche sull’immigrazione), ha pubblicato poco tempo fa un saggio per il Mulino (all’interno della ricerca 2018 dell’Istituto Cattaneo sulla “Politica in Italia”). In quello studio, Tintori ripercorreva la “strada lunga e tortuosa”, individuando intanto i freni emotivi, anche a sinistra, che hanno portato alla paralisi e a un dibattito asfittico: da una parte “le istanze etnico-identitarie”, dall’altro quelle “solidaristiche”. “Quello che ha pesato, intanto”, dice Tintori, “è la sovrapposizione dell’elemento identitario (attorno alla definizione di chi sia il cittadino) all’elemento tecnico-giuridico: chi e come può avere accesso alla cittadinanza. Nella discussione pubblica è visibile quasi soltanto la contrapposizione frontale di tesi sul primo aspetto. Anche sul caso Rami si è parlato e agito di pancia, anche se appoggiandosi alla possibilità, prevista dalla legge del 1992, articolo 9, di acquisire la cittadinanza per merito”. Alla base, il problema è anche un altro, spiega Tintori: “La natura ‘differita’ e ‘condizionata’ dell’applicazione dello ius soli in Italia”: il diritto non lo acquisisce alla nascita chi nasce in Italia da genitori stranieri. Bisogna cioè aver compiuto diciotto anni, averne meno di diciannove, e aver avuto residenza legale ininterrotta nel paese dalla nascita. E’ come “se si usasse un escamotage per evitare di ricorrere alla categoria tossica e divisiva dello ius soli: lo ius soli in qualche modo c’è, ma essendo differito e condizionato assume l’aspetto di uno ius culturae”. Altro elemento che inquina il dibattito: la rigidità, dice Tintori, attorno al concetto stesso di cittadinanza, “che non è qualcosa di statico e immutabile, come non lo è stata nella storia”. In un altro saggio, firmato con Enrico Gargiulo (“Giuristi e no, utilità di un approccio interdisciplinare allo studio della cittadinanza”), Tintori affronta infatti il tema della “demitizzazione” della cittadinanza come “svalutazione utile” del “concetto che erode quella connotazione di sacralità, derivata dalla sua sovrapposizione con l’identità nazionale e l’esercizio statale della sovranità, idealizzati in una dimensione statica, originaria e naturale mai esistita”. Accentuare “la sacralità della nozione di cittadinanza” porta ancora di più verso un dibattito pubblico “schiacciato sul registro ideologico-emotivo”. In Germania, scrive Tintori, paese che in questo campo ha avuto un “vissuto” per alcuni aspetti simile al caso italiano, c’è una legge riformata poche volte, con attenzione a privilegiare i legami con i discendenti dei nazionali all’estero e con chiusura nell’accesso alla cittadinanza per chi viene da fuori. Ma si è poi arrivati alla riforma del 2000, “definita epocale non tanto per il fatto che introducesse disposizioni più inclusive verso gli immigrati e i loro discendenti, quanto per il valore simbolico e concreto di forte rottura culturale rispetto alla storia della cittadinanza in quel paese. Ciò che raramente si ricorda, però, è che l’adozione della riforma del 2000 fu anche il prodotto di una campagna sull’opinione pubblica, molto risoluta ed efficace, iniziata con il cosiddetto ‘Manifesto dei 60: la Germania e l’immigrazione’”.
In Italia, dice Tintori, “si è cominciato ad agire in questa direzione durante la scorsa legislatura, anche su impulso della ‘Rete seconde generazioni’ e dei sindaci in seno all’Anci. Il Pd e i suoi alleati avevano messo il tema ius soli nelle dichiarazioni d’intenti pre elettorali, nel 2013. Ma se a destra e nel M5s la volontà di riformare non c’è mai stata, a sinistra si è faticato a contrastare le tesi infondate del fronte populista anti-immigrazione, e non c’è stata, nei fatti, la disponibilità vera a rischiare pur di cambiare la legge. E se oggi Renzi, a mio avviso, ha ragione a porre il tema del ‘se nel 2017 fosse stata posta la fiducia’, è anche vero che quando era al governo lui si è preferito puntare su altro, cioè sulla riforma costituzionale”. Lo ius soli, dice Tintori, “è stato utilizzato spesso strumentalmente, come luogo per una politica identitaria, anche a sinistra. Ne è un esempio Piero Grasso: nel suo discorso di insediamento da presidente del Senato, nel 2013, dichiarava che lo ius soli non rappresentava una priorità, salvo poi farsi paladino dello ius soli nel 2018, dopo essere stato indicato come candidato premier per LeU”.