Perché “l'incubo Draghi” tiene lontano Salvini dalle elezioni anticipate
Garavaglia è “preoccupato”, Giorgetti parla di dimissioni. Ma il vicepremier resiste e spera nella conversione di Di Maio
Roma. A un certo punto, sabato sera, tutto sembrava finalmente sul punto di compiersi. “Le dichiarazioni di Conte sono il ‘the end’”, esultavano tra loro, via WhatsApp, gli uomini di governo della Lega più estenuati da questa “convivenza surreale” col M5s. Perfino Lorenzo Fontana, che di Matteo Salvini è il più stretto confidente, davanti ai colleghi di partito pareva avere emesso la sua sentenza inappellabile, umiliato com’era stato dallo stesso premier che lo aveva rimproverato per le mancanze che invece il Carroccio attribuiva al grillino Vincenzo Spadafora sulla questione delle adozioni. D’altronde perfino Giancarlo Giorgetti – esasperato pure lui dalla trafila quotidiana di lamentele che gli arrivano dai ministri che più si lamentano della sconclusionata inconcludenza gialloverde – un paio di giorni prima, un po’ sornione, aveva accennato coi suoi collaboratori alla risoluzione definitiva: “Se dopo le europee non cambia nulla, io faccio un passo indietro”. E dello stesso tono sono in fondo le esortazioni che a Salvini giungono da buona parte della squadra di governo, e specie da quelli che occupandosi dei dossier economici sanno bene che, se pure non dovesse succedere per i capricci grillini, “si rischia di saltare sui numeri”, come quelli – ad esempio – diffusi lunedì dall’Ocse, che prevede una diminuzione del pil dello 0,2 per cento nel 2019. Tutto insomma sembrava preludere all’inevitabile precipitare degli eventi, e alla definizione di un percorso di crisi che conducesse a un voto anticipato a giugno, sulla scia del trionfo delle europee. Sennonché, alla fine, Salvini è tornato a ribadire la sua convinzione (“Si andrà avanti”) e a farlo con la perentorietà necessaria a nascondere quello che è in realtà un timore fortissimo, nella mente del vicepremier: un governo tecnico.
Non è bastato, del resto, che dal Quirinale ribadissero, attraverso canali più o meno informali, la ferma volontà di Sergio Mattarella di attenersi al dettato della Carta, per cui il ritorno alle urne, se altra soluzione parlamentare non ci fosse, sarebbe lo sbocco inevitabile di una crisi di governo. “Niente, Matteo non ci crede”, riferisce chi gli sta intorno. Non crede, Salvini, che al Colle scioglierebbero davvero le Camere con una Lega al 30 e più per cento. Così come non crede che tanti deputati e senatori (non solo di quelli eletti tra i Cinque stelle), rinuncerebbero in alcun caso alla poltrona. E allora ecco che nella testa del segretario della Lega, le ansie per il futuro prendono i connotati di un governo tecnico, guidato dal Draghi o dal Cottarelli di turno, sostenuto dal M5s e dalla truppa sempre numerosissima dei “responsabili”.
E per questo Salvini sbuffa, scalpita, ma poi media, ribadisce che “il governo regge, e io figurarsi se mollo”, e insomma “avanti tutta”. Nella speranza che, dopo la batosta delle europee, nel M5s si apra una spaccatura insanabile che porti i lealisti fedeli a Luigi Di Maio a restare agganciati al governo e ai suoi privilegi, e gli oltranzisti a cinque stelle a trovare altrove il loro destino da contestatari impenitenti. “Come se poi tutto si risolvesse così”, mugugnano comunque i leghisti al governo, che infatti cercano di spiegare al capo che ad esempio, su sblocca cantieri e decreto crescita, “non è che tutto sia fermo perché ci sono i fichiani contrari, ma semplicemente perché questi”, e questi sarebbero i ministri e i sottosegretari del M5s, “non concludono niente da soli, e devono tenersi buona l’Anac di Cantone che vede in qualsiasi velocizzazione un favore ai corrotti”. Non è un caso che Massimo Garavaglia, l’uomo dei conti della Lega, non provi neppure più a nasconderla, l’inquietudine: “Siamo preoccupati per la mancanza di crescita”, ammette. E poi c’è chi, come Giulia Bongiorno, il suo progetto di favorire la crisi prova ad attuarlo con delle piccole fughe in avanti: come quando, giovedì scorso, ha fatto non poche pressioni perché si accelerasse sull’emendamento che introduce la castrazione chimica. “E’ quella che spinge di più, perché si rompa”, dicevano i leghisti in Transatlantico riferendosi al ministro della Pubblica amministrazione, nel mentre che i sottosegretari Guido Guidesi e Nicola Molteni, due di quelli che finiscono spesso per ritrovarsi a tirare la carretta anche su temi di loro non specifica competenza, improvvisavano nel cortile di Montecitorio una specie di riunione d’emergenza per elaborare una strategia d’Aula insieme al capogruppo Riccardo Molinari. E i deputati che di volta in volta venivano convocati per ricevere le direttive del caso, tornavano indietro sbuffando tra di loro: “Ma si può andare avanti così?”.