“Abbiamo perso la Libia. Un capolavoro nazionalpopulista”. Intervista con Minniti
Tripoli e Torre Maura, il centrosinistra strabico sull’immigrazione e la destra che se ne avvantaggia “senza risolvere nulla”. Parla l'ex ministro dell'Interno
Roma. “L’immigrazione è una di quelle poche questioni per le quali l’abusato termine ‘epocale’ è invece appropriato. E di fronte a un fenomeno del genere, rimanere incollati alla polarità semplicistica di ‘accogliamoli tutti’ contrapposto a ‘non accogliamo nessuno’ è il più grande errore che una democrazia come la nostra possa fare”. Poi sembra rivolgersi più esplicitamente alla sua parte politica, al centrosinistra: “Accomunare le periferie al razzismo è una follia”, dice. “Fare un’equazione tra periferie e xenofobi, tra periferie e nazionalpopulisti, è un favore fatto ai nostri avversari. Non può passare. E’ una svista catastrofica”.
Marco Minniti, sessantadue anni, ex ministro dell’Interno, l’uomo che da dicembre 2016 a giugno 2018 ha quasi sommato in sé il ruolo di ministro della forza a quello di ministro degli Esteri, applicando all’immigrazione un approccio inedito almeno in Italia, offre adesso il suo punto di vista nella confusione urlata del dibattito italiano dopo i fatti di Torre Maura a Roma. E lo fa proprio mentre la Libia, la sua Libia, quella degli accordi che avevano consentito la riduzione degli sbarchi, sembra precipitare in un caos militare che allude pericolosamente alla guerra civile.
“Qualche mese fa, dopo la Conferenza di Palermo, manifestai la mia preoccupazione dicendo che temevo che stessimo per perdere la Libia. Ed eccoci, sta accadendo”, dice. “Il fatto è che ce ne siamo completamente disinteressati. L’Italia ha dato un messaggio sbagliato, ovvero ha fatto capire che il nostro paese non era interessato a parlare con il nord Africa, ma soltanto a trasformare la questione dell’immigrazione in un argomento di conflitto in Europa. Infatti abbiamo chiuso i porti, e continuiamo ancora adesso ad alimentare un conflitto da ‘pizzicagnoli’ delle vite umane. Abbiamo dato l’impressione che governare la questione libica non fosse più una nostra priorità. Non abbiamo nemmeno speso una sola parola nel momento in cui il Fezzan, cioè il sud della Libia, che era al centro del nostro impegno, diventava oggetto di una iniziativa militare”.
Scoppierà la guerra civile in Libia? “Non è accettabile una soluzione militare della crisi. Non è accettabile, e non è nemmeno possibile lasciare che accada. Ed è per questo che c’è bisogno di riprendere in mano l’azione politica…” . Minniti fa una pausa. Sorride. “Sembra quasi un paradossale contrappasso”, dice. Cioè? “In questi mesi abbiamo tenuto aperto un durissimo e francamente inconcludente contenzioso con la Francia. Ecco, non vorrei ci svegliassimo adesso e dovessimo prendere atto che ora noi in Libia contiamo meno degli ‘odiati’ francesi. La Libia è un luogo strategico per l’Italia, molto più di quanto in realtà non lo sia per la Francia. L’instabilità libica non è soltanto un problema economico, ma anche di sicurezza nazionale. E in ogni caso la Libia è cruciale per gli assetti mediterranei. Per questo sarebbe molto importante che si pronunciasse ad horas il Consiglio di sicurezza dell’Onu”. L’Italia dovrebbe fare qualcosa? “Direi proprio di sì”.
La Libia è strategica. Tuttavia è stata abbandonata, è uscita dal radar delle attenzioni del governo italiano, malgrado gli strepiti, le urla, le esibizioni muscolari sul tema dell’immigrazione che pure è strettamente collegato al destino della Libia. “C’è un problema di approccio. E questo è abbastanza chiaro. L’immigrazione in Italia non è un’emergenza. E’ stato sbagliato in passato gestirla come fosse un’emergenza, quando sulle coste italiane si verificavano arrivi numericamente importanti. Ed è adesso persino delittuoso considerarla un’emergenza, ora che i numeri sono decisamente contenuti. Il recente caso di Torre Maura è significativo. Rivela quanti guasti possa provocare l’atteggiamento emergenziale e concitato. Spiega bene cosa accade quando si avanza per spasmi e approssimazioni”.
“La faccenda di Torre Maura è all’incirca questa”, dice Marco Minniti: “Si decide l’invio di un gruppo di famiglie rom in una zona della periferia di Roma, e lo si fa senza costruire prima nessun rapporto con il territorio, senza comunicare, senza nemmeno capire, come se ci fosse per l’appunto in corso un’emergenza tale da giustificare quasi la segretezza con la quale ci si muove. E’ stato un pasticcio, un guaio pericoloso che ha consentito ad alcuni estremisti di destra di accendere i pregiudizi e le diffidenze della gente. Se tu un fenomeno non lo governi, finisce male. A Reggio Calabria, da ragazzo, vidi la destra trasformarsi in un movimento di massa. Una rottura sociale può diventare facilmente il brodo di coltura per prospettive che comportano uno slittamento della democrazia. Per questo dico che noi, il centrosinistra riformista, dobbiamo cambiare il baricentro della nostra posizione. Dobbiamo subito riaprire i canali di comunicazione con gli arrabbiati e gli impauriti. Lo so che non è facile. Ma dobbiamo rendere evidente che coloro i quali pensano di essere irrilevanti, non lo sono”.
Eppure persino i giornali del centrosinistra, mercoledì e giovedì, hanno quasi costruito una coincidenza antropologica tra i romani delle periferie e la teppaglia dell’estremismo xenofobo. “E’ sbagliato. C’è un grande disagio in ampi segmenti del nostro territorio nazionale che negli ultimi anni hanno visto aggravarsi le condizioni di vita, con spinte sempre più forti verso la marginalità. Tutto questo si è intrecciato a una fortissima sensazione di insicurezza sociale e ‘fisico-individuale’. E’ una cosa che non è accaduta soltanto in Italia. Ma in gran parte del mondo occidentale. Tra i ceti più deboli della società si sono diffusi due profondissimi sentimenti, la paura e la rabbia. E qui siamo all’aspetto centrale della questione. Una forza di sinistra riformista dovrebbe sapersi rapportare con questi sentimenti. Dovrebbe saper interpretare. La verità è che abbiamo lasciato un vuoto. E in quel vuoto hanno preso contatto con la realtà gruppi di destra che coltivano parole e atti ispirati al razzismo. Una democrazia deve sapere distinguere tra il cittadino impaurito e il razzista. Che non sono affatto la stessa cosa. Questo è il cuore del problema”.
E quindi? “E quindi bisogna liberare i cittadini dalle loro ossessioni e paure. Questa è la differenza che c’è tra la destra e la sinistra. Tra noi e loro. Perché i nazionalpopulisti vogliono al contrario tenere queste persone legate, imprigionate alle loro paure dimostrando così che l’emergenza è permanente. E un’emergenza permanente giustifica tutto. Lunedì scorso ero a Torino con Sergio Chiamparino e Stefano Esposito. Abbiamo fatto un giro nelle realtà più difficili della città, da piazza Alimonda al lungo Dora, fino a corso Vercelli, dove un tempo la sinistra era molto forte. Sa qual era il sentimento prevalente delle persone che si fermavano a parlare? Era la paura di uscire per strada dopo una certa ora. E questa non era gente di estrema destra. Erano persone normali. Gente che non ha nessuna voglia di essere accusata di razzismo o di essere sospettata di coltivare un rapporto di cripto alleanza con i nazionalpopulisti. Il compito di una forza riformista è quello di garantire a queste persone di avere un moderno approccio alle politiche di sicurezza. Non soltanto attraverso il presidio di polizia, che ci deve essere, ma anche attraverso un’opera di risanamento delle periferie. Le strade devono essere presidiate, ma anche illuminate. E pulite. E vivibili. Guardi, la differenza con i nazionalpopulisti è tutta qua. O almeno dovrebbe esserlo. Loro mostrano soltanto la faccia dura dello stato, poi tutto il resto non sanno cosa sia. La sinistra invece è l’unica che può pensare le politiche di sicurezza con questo respiro e con questa visione”.
Il governo ha tagliato i fondi alla riqualificazione delle periferie. “Un apparente paradosso. Pochi giorni fa la maggioranza ha bloccato alla Camera persino la possibilità di una commissione d’inchiesta sulle periferie urbane. Una commissione che nella scorsa legislatura esisteva, e aveva fatto un lavoro eccezionale. Mi ha impressionato che questo evento non abbia avuto nessuna eco pubblica, come si fosse trattato di un comunissimo fatto di meccanica parlamentare. Non lo era. Non lo è. Si capisce invece che per questo governo il tema delle periferie non esiste. Loro hanno preso molti voti in quei luoghi delle nostre città, e ora non se ne occupano. Teoricamente questa è un gigantesca contraddizione di cui la sinistra dovrebbe occuparsi”.
E tuttavia l’impressione è che l’argomento sia quasi imbarazzante per il Pd. Mentre c’è tutta una parte della sinistra, non solo politica ma anche intellettuale (diciamo) che addirittura ha individuato in Minniti il simbolo di qualcosa da cancellare. La sicurezza è una bestemmia. Un turpiloquio.
Nadia Urbinati, su Repubblica, il 22 marzo, ma è solo un esempio, scriveva che per battere Salvini il Pd di Zingaretti deve “dimenticare Minniti”. L’ex ministro non è interessato a fare polemica, e non risponde in alcun modo. Gli piacciono – dice – le idee e la politica intese come visione della società. “Ma se non interpretiamo noi la richiesta di sicurezza, ci saranno altri a farlo”, spiega. “E lo faranno nella maniera più sbagliata”, aggiunge. “Non si può negare che sia un problema. Non ci si può voltare dall’altra parte. E’ dirimente. Temo infatti che, se non si fa qualcosa, un pezzo delle nostre periferie possano diventare una palestra per la destra peggiore”.
La sicurezza è di sinistra? “Non è né di destra né di sinistra. La sicurezza è ‘un bene comune’. Tuttavia la sinistra ha maggiori strumenti per potere mettere in campo una moderna politica che tenga insieme sicurezza, libertà e umanità. Evidentemente tutto questo ci carica di maggiori responsabilità. Da ministro andai al Corviale, uno dei simboli della periferia romana. Incontrai il presidente di una cooperativa sociale che aveva fatto un lavoro straordinario. Ricordo benissimo cosa mi disse: “Qui per l’80 per cento sono persone per bene. Il 20 per cento invece vive nell’indotto della criminalità. Compito dello stato è impedire che il 20 per cento domini sull’80 per cento’. Questo è il vero senso della parola sicurezza che la sinistra deve difendere”.
Eppure non è così. Non si capisce bene nemmeno quale sia la posizione del centrosinistra. Cosa comunichi, quale idea. Anche l’immigrazione è maneggiata con un tono tutto lirico e retorico, un modo di condursi che sembra fatto apposta per aiutare e giustificare l’esistenza di Salvini. In concreto che si dovrebbe fare? “Ci vuole una visione complessiva, ripeto. Uscire dagli slogan e abbracciare una visione generale del tema immigrazione. In primo luogo devi contrastare il traffico di essere umani. Poi devi capire che da qui ai prossimi vent’anni i destini dell’Europa e della e dell’Africa saranno intrecciati. Infine devi creare dei corridoi umanitari e dei percorsi legali per l’immigrazione. Ingressi regolati con una nostra presenza nei paesi di provenienza. L’immigrato si presenta al consolato, viene a sapere di che tipo di manodopera necessita l’Italia, e a quel punto entra all’interno di un meccanismo regolato. Chi arriva in Italia deve essere già dentro un percorso di lavoro e di integrazione. Guardi, la sicurezza della nostra democrazia nei prossimi anni si gioca sull’integrazione. Al contrario, con quello che io chiamo il ‘decreto insicurezza’, il governo ha scelto la strada della illegalità. Che non è nuova. In passato altri paesi si sono cimentati su questa stessa strada e hanno creato il brodo di coltura su cui poi è nato il terrorismo islamista: i quartieri ghetto come Molenbeek, a Bruxelles. La stragrande maggioranza degli attentati degli ultimi anni in Europa è figlia di un’integrazione sbagliata”.
L’Italia non ha, non ancora, un problema di islamizzazione. “L’Italia è ancora in tempo. Abbiamo un vantaggio rispetto agli altri paesi, perché la nostra immigrazione è più recente. Siamo ancora in tempo a evitare fenomeni di radicalizzazione. Ma tutto questo richiede un’idea di come affrontare il fenomeno. Un’idea che sia organica, come dicevo”. E Minniti un’idea ce l’ha. E parte dal presupposto che non si debba negare il problema. “Naturalmente si può anche non condividerla quest’idea”, dice lui. “Tuttavia a una visione si deve contrapporre un’altra visione. Quello che non si può fare è offrire soltanto pezzi disorganici che non sono una risposta a un fenomeno complesso”. Lo diceva all’inizio di questa intervista: rimanere incollati alla polarità semplicistica di “accogliamoli tutti” contrapposto a “non accogliamo nessuno” è pura rappresentazione. Recita per allocchire gli elettori. Un teatro dell’incoscienza.