La bufala del governo che non tiene
L’alternativa che non c’è, le opposizioni che balbettano, l’abbraccio sincero tra Di Maio e Salvini, le nomine del 2020, la paura di un’alleanza con il Cav. Perché Salvini non farà saltare il governo? La risposta è qui, nella testa di un leghista
Nei palazzi della politica romana da un paio di mesi a questa parte il tema di dibattito più rincorrente è legato a uno scenario che a voler prendere alla lettera i retroscena dei giornali sembra essere più che probabile, semplicemente imminente: la caduta del governo. Non c’è giorno in cui “il duello”, “lo scontro”, “la guerra”, “il conflitto” tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio non venga descritto come se fosse l’ultima goccia letale nel vaso del risentimento di governo. Eppure, ogni giorno, accanto ai temi su cui il leader della Lega e quello del M5s marcano una certa distanza ci sono molti altri temi (welfare, politica estera, politica europea, nazionalizzazioni, indifferenza sulla salute dei conti pubblici) su cui la distanza è invece molto meno netta. E alla fine di ogni giornata, la domanda per chi si appassiona alla politica resta sempre la stessa: ma la storia della debolezza del governo è vera o è una bufala grande come un casa?
Abbiamo parlato negli ultimi giorni con alcuni leghisti che occupano importanti posizioni di governo e abbiamo posto loro alcune domande sul futuro dell’esecutivo, offrendo la garanzie dell’anonimato. La prima domanda riguarda la verità, per quanto possibile, sul rapporto tra Di Maio e Salvini e i leghisti con cui abbiamo parlato offrono una versione che suona grosso modo così: i due vicepremier hanno ancora un rapporto ottimo e si intendono quasi su tutto, ma il problema non è rappresentato dal loro rapporto, ma da ciò che succede a mano a mano che ci si allontana dalla luce dei due leader. Nel sottobosco del governo il rapporto tra i leghisti e i grillini funziona solo perché così vogliono i capi dei due partiti (più è la distanza dai re sole, o re sòla, e più il buio aumenta) e non c’è leghista di governo che ogni volta che il M5s rallenta l’azione dell’esecutivo non chieda al Capitano per quale ragione non si spacchi tutto per andare a votare. La spiegazione potrebbe essere sintetizzata così: il nostro consenso è legato anche alla distanza che a livello nazionale la Lega ha da Berlusconi e tornare a votare oggi in un’alleanza con Forza Italia significherebbe fare un regalo almeno da dieci punti al M5s, che improvvisamente avrebbe un tema per la campagna elettorale: votare Lega significa votare Cav.
Il ragionamento che ogni leghista di governo offre oggi a ogni interlocutore che lo interroghi su questo tema prevede però un passaggio supplementare che riguarda il percorso necessario per evitare che la fatica di governare con il M5s possa diventare un supplizio. Come si fa? E soprattutto: come si fa a evitare di andare al voto nel caso in cui le europee dovessero consegnare una vittoria clamorosa alla Lega e una sconfitta sonante al M5s? Il leghista di governo – che ridacchia quando parla di Tav (“Ma non avete capito che la stiamo facendo”), che ironizza sul posizionamento europeo del M5s (“i grillini sono disperati, non sanno in quale gruppo andare, hanno chiesto anche ai popolari”), che ti confida che sui territori almeno un terzo degli elettori che un tempo votava M5s ora vota Lega (“e al Parlamento europeo il nostro capogruppo, nella prossima legislatura, sarà un ex del M5s, sarà Marco Zanni”), che ti invita a guardare le volte che i parlamentari di Forza Italia escono dalla Commissione per non fare andare sotto il governo nelle votazioni (“se Forza Italia va alle elezioni i parlamentari che ha oggi quando mai li riavrà?”) – non fa fatica a dirti due cose: Salvini non tornerà alle elezioni prima delle nomine della prossima primavera (Eni, Enel, Poste) e fin quando a fianco della Lega non ci sarà un nuovo partito moderato conservatore (non Forza Italia, non Fratelli d’Italia) capace di intercettare i voti che Salvini non riesce ancora a intercettare (nella Lega si parla spesso del progetto di Giovanni Toti, ma sempre con meno convinzione). Ma allo stesso tempo ti dice anche che la grande forza di questo governo è legata all’assenza di alternativa. Di Maio è debole, ok, ma a parte “Lo Scappato di Casa del Sudamerica”, che funziona bene solo su Facebook, esiste un’alternativa interna al M5s capace di intercettare il malcontento nei confronti di Di Maio?
E poi: l’opposizione sta guadagnando qualche punticino ma un’alternativa che si trova al 20-25 per cento e che sa che andando alle elezioni rimarrebbe comunque all’opposizione ha davvero interesse a fare di tutto per votare il prima possibile? Alla fine dei conti, dunque, i due gemelli diversi del populismo litigano ma non litigano, scazzano ma non scazzano, duellano ma non duellano e in fondo se la intendono anche se si danno qualche sberla. E se l’economia reggerà, se lo spread non salirà, se l’occupazione non precipiterà, se la furia dei mercati tarderà ad arrivare dopo le europee salteranno alcuni ministri (i leghisti dicono Danilo Toninelli, Infrastrutture, ed Elisabetta Trenta, Difesa) ma fino alla prossima primavera la pacchia per Salvini e Di Maio non finirà. Ma la domanda, anche alla luce delle previsioni del Fmi (crescita +0,1 nel 2019), anche alla luce dei dati sul debito di Bankitalia (il debito del 2018 è stato rivisto al rialzo, 132,2, contro il 131,4 del 2017), anche alla luce delle previsioni sul deficit previste nella bozza del Def (da 2,04 siamo passati a 2,4), la domanda è lecita: davvero l’economia reggerà?