Centrodestra per forza
Cosa torna e cosa non torna nel piano del Cav. per portare Salvini a rompere dopo le europee senza andare a votare
Roma. Potrebbe in fondo avvenire lo stesso, per quanto Matteo Salvini si sforzi di scongiurarlo. “Diciamo che potrebbero essere le contingenze, a farlo ricredere”, se la ride, come prefigurando un inevitabile precipitare degli eventi, il forzista Giorgio Mulè. Il leader della Lega la ripudia davvero, al momento, l’ipotesi di un ritorno nella casa che fu del centrodestra. “Insieme a Berlusconi? A livello d’immagine, arretreremmo di dieci anni”, spiegava giorni fa Lorenzo Fontana, ministro della Famiglia, ai suoi compagni di partito del Veneto, là dove più forti si alzano, e da tempo, le proteste contro questa agonia grilloleghista. Salvini pensa ad altro, dunque, immagina altri sbocchi. E però, chi si occupa per lui di tenere il conto del pallottoliere in Parlamento, quando si parla di una ricomposizione del centrodestra dopo le europee, dice che “l’operazione è improbabile, ma assolutamente fattibile”. E a renderla tale, in fondo, è il solito richiamo della palude romana, la paura che tutti hanno di tornare a casa: da sempre, l’elemento che riesce a donare improvvisa stabilità anche alle legislature più barcollanti. “Quando Salvini dovesse minacciare davvero il ritorno alle urne, di sicuro partiranno le grandi manovre”.
Arriverà, la minaccia? “A meno che Matteo non voglia passare per mollo, continuando a farsi prendere a schiaffi da Di Maio, arriverà per forza”, sbotta un senatore leghista a tarda sera, agitando con una mano un sondaggio di “Emg acqua” che vede per la prima volta la Lega in calo di 0,8 punti in una settimana, e con l’altra un’agenzia che riporta l’ennesimo attacco diretto del capo grillino al ministero dell’Interno sulla questione dei rimpatri. “E quando si passa dallo scontro politico a quello personale – vanno ripetendo da giorni, a Salvini, i suoi colonnelli – diventa difficile ricucire”.
La resa dei conti arriverà dopo le europee: all’indomani del voto del 26 maggio, il leader della Lega non potrà che presentare la lista delle richieste del Carroccio. Ministeri, ovviamente, e tra i primi ci saranno l’Ambiente e i Trasporti, forse anche la Difesa (dove ormai è guerriglia quotidiana tra il governo e i generali); e poi, soprattutto, obiettivi. Una “revisione del contratto”: questo esigeranno i leghisti. E allora l’accelerazione sull’autonomia, il superamento definitivo dello stallo sulle infrastrutture, e magari un freno alle derive giustizialiste del M5s, diventeranno i rospi che Di Maio dovrà accettare d’ingoiare pur di restare al governo, sempre sperando che nessuno nel suo partito non apra il processo contro di lui. “Imploderanno, a quel punto”, scommettono in parecchi nella Lega. E allora non resterà che paventare il ritorno alle urne. “Meglio incassare subito, e sicuramente prima della prossima Finanziaria, che sarà un bagno di sangue”, incalzano i ministri del Carroccio, quasi ignorando che tornare al voto a settembre, alla vigilia della stesura della legge di Bilancio e con una campagna elettorale da fare sotto gli ombrelloni, sarebbe quantomeno un azzardo.
Ma ci sono anche altri problemi, per Salvini. E hanno a che fare coi numeri. “Col 35 per cento, potresti vincere in tutti i collegi e ottenere più di 300 seggi”, provano a convincerlo i fautori della tesi dell’autosufficienza leghista. E però quel dato non è certo ripartito equamente sul territorio nazionale: e dunque negli uninominali del sud, senza Forza Italia, la Lega stenterebbe a vincere da sola. Anche per questo Salvini proverà, nelle amministrative siciliane di domenica, a fare degli esperimenti su scala locale (stessa tentazione, accarezzata e poi abbandonata, in vista delle regionali di fine maggio in Piemonte). E così da Gela a Bagheria, da Caltanissetta a Mazara del Vallo, Salvini ha voluto dei candidati sindaci leghisti – o, quantomeno, acquistati alla bisogna, in tutta fretta, alla causa del leghismo – in corsa solitaria anche contro il resto del centrodestra. Piccoli carotaggi, in ogni caso, e dai risultati incerti. “Anche tentando la prova di forza a settembre, rischiamo comunque di finire di nuovo nel pantano parlamentare”, sibila infatti un leghista campano. E allora? “E allora le contingenze”, per dirla con Mulè, potrebbero rendere obbligata la strada apparentemente meno gradita: quella che condurrebbe il Carroccio di Alberto da Giussano di nuovo nella casa del centrodestra. E forse anche per questo, da tempo, gli sherpa di Montecitorio e Palazzo Madama tengono i conti: al momento della verità, per puntellare una maggioranza di centrodestra, servirà strappare al M5s una decina di senatori e almeno 35 deputati. “Improbabile, certo, ma fattibile”.