Claudio Durigon, Claudio Cominardi, Laura Castelli (foto LaPresse)

Fuori i secondi

Marianna Rizzini

Dell’insostenibile leggerezza (o pesantezza) dei sottosegretari. La guerra tra mondi gialloverdi era già scoppiata sottotraccia

Se avessimo governato da soli, nessun sottosegretario sarebbe stato condannato: così parlò (due giorni fa) il capogruppo a Cinque stelle in Senato Stefano Patuanelli, a margine del caso di Armando Siri, il sottosegretario leghista indagato e di fatto già ufficiosamente licenziato dal premier Giuseppe Conte (con ricasco di polemiche con il vicepremier Matteo Salvini). E se la frase di Patuanelli, vista dal lato leghista del campo gialloverde, poteva essere considerata come uno sputare nel piatto in cui si mangia, la frase “ora pensiamo a lavorare”, detta dell’altro vicepremier Luigi Di Maio proprio mentre Siri annunciava dimissioni posticipate (in caso di non-archiviazione), pareva la beffa aggiunta al danno anzichenò. E non soltanto perché Di Maio è il sospettato numero uno del presunto pressing su Conte rispetto all’allontanamento di Siri, ma perché hai voglia a lavorare, nel governo in cui alcuni tra i secondi (sottosegretari, appunto) sono talmente ingombranti – ma non nel senso del peso specifico politico-culturale – da fare, più che ombra ai primi, soprattutto confusione. “Fuori i secondi”, devono aver pensato più volte alcuni ministri sul ring metaforico del governo Conte, quando un sottosegretario grillino mostrava al mondo la tensione ancora non visibile con la Lega o quando un sottosegretario leghista portava alla luce il non ancora percepibile mugugno anti Cinque stelle. “Fuori i secondi”, devono aver pensato, non senza sgomento, anche i conduttori e autori televisivi che si siano trovati a dover far parlare a turno questo o quel “vice”, pena il quasi eterno veto di Rocco Casalino, già plenipotenziario per la comunicazione del M5s, poi portavoce del presidente del Consiglio. E però il sottosegretario o il viceministro, se lasciato agire indisturbato sulla scena, può creare un indelebile effetto-straniamento nell’osservatore, come di fronte alla moltiplicazione dei Toninelli (ministro dei Trasporti con tendenza alla gaffe).

 

Il caso Siri e le tensioni latenti (della serie: “Ah se avessimo governato da soli”). E le due faglie al Viminale

Manlio Di Stefano scatenato contro l’universo mondo a “Piazzapulita”, l’antimafia di Carlo Sibilia, gli altri Toninelli

Per non dire dei curriculum: a ben guardare, e andando a ritroso nei trascorsi dei secondi, ci si può trovare di fronte all’assurdo, come quando si è scoperto che Siri, prima di diventare sottosegretario alle Infrastrutture, usava parole incredibili a udirsi, in qualità di fondatore dell’associazione mistico-politica Spazio Pin (associazione cofondata con un’operatrice shiatsu e una chiropratica, come ha ricordato Salvatore Merlo su questo giornale). “Un’energia nata dal cuore per creare un nuovo modo di pensare dato dalla consapevolezza che il mondo fuori è la conseguenza di quello che siamo dentro”, scriveva per esempio Siri. Ed è chiaro che la mistica attecchisce là dove la tendenza al complottismo fiorisce: si sa infatti che questo è il governo in cui siede il sottosegretario all’Interno Carlo Sibilia, l’uomo che qualche anno fa era capace di indugiare nella disamina delle teorie revisioniste sull’allunaggio: “Oggi si festeggia l’anniversario dello sbarco sulla luna. Dopo 43 anni ancora nessuno se la sente di dire che era una farsa…”, twittava Sibilia nel 2014. In tempi più recenti, però, Sibilia si è reso protagonista, con l’altro sottosegretario all’Interno Luigi Gaetti (anch’egli esponente del M5s), di una surreale diatriba post insediamento narrata dal Fatto quotidiano, che aveva per oggetto il presunto ingresso di Gaetti nell’ufficio di Sibilia al Viminale (assente Sibilia). Motivo per cui lo stesso Sibilia si era affrettato a diramare una circolare dall’involontario effetto comico, specie considerando l’infuriare, tutto attorno, delle ben più gravi polemiche sulla linea anti immigrati del ministro e vicepremier Matteo Salvini: “A partire dalle 13,30, data odierna”, diceva la circolare, “ogni accesso di personale estraneo agli stretti componenti di segreteria dell’ufficio del sottosegretario di Stato, onorevole dottor Carlo Sibilia, ai luoghi e agli spazi a esso pertinenti, dovrà avvenire solo, ed esclusivamente, su autorizzazione espressa dello stesso sottosegretario. Senza eccezione alcuna”. Tuttavia oggi un diversamente polemico e vaticinante Sibilia interviene sul caso Siri ai microfoni di Radio Capital, ospite di “Circo Massimo”: “Siri? Si deve dimettere. Ma se sceglierà di non farlo non si arriverà alla crisi di governo”. Per il sottosegretario a Cinque stelle la Lega “decide di farsi del male da sola. Ma così si fa un danno anche al governo, che sta facendo un gran lavoro contro la criminalità organizzata e la mafia. Ogni ombra va allontanata… è diventato un logoramento senza senso… Al posto di Siri, se avessi delle indagini così pesanti addosso, vorrei che il mio ministro dell’Interno fosse tranquillo e sereno di poter parlare di lotta alla mafia senza ombre”.

 

Fatto sta che, in questo scorcio pre elettorale, con le Europee e i sondaggi pro Lega che incombono, non c’è ministero che non abbia il suo sottosegretario caterpillar – ma non necessariamente contro gli alleati e fratelli-coltelli. Ed ecco comparire sugli schermi de La7, giovedì sera, durante una puntata di “Piazzapulita”, il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano – già capogruppo M5s nella commissione Esteri della Camera nella passata legislatura nonché, come scriveva l’Espresso nel 2017, compagno di viaggio di Alessandro Di Battista in Guatemala e in Africa. Ma Di Stefano è anche un putiniano di ferro, chavista e sostenitore di una revisione del ruolo italiano nella Nato. E l’altra sera, intervenuto su La 7 dopo l’ex premier Paolo Gentiloni, il sottosegretario pareva caricato a molla contro l’universo mondo e, in ordine di tempo, prima di tutto contro l’ex presidente del Consiglio che, a suo dire, “aveva fatto il monologo”. “Ma lei lo sa che cos’è un monologo?”, diceva allora il conduttore Corrado Formigli, costretto a intervenire anche quando Di Stefano si rendeva protagonista di un vivace scambio di punti di vista con Antonio Padellaro, ex direttore e cofondatore del Fatto. “Viene a farci la lezioncina sulle domande che dobbiamo o non dobbiamo fare e viene a fare propaganda del M5s propinandoci fake news su Nicola Zingaretti”, diceva Padellaro mentre Di Stefano innalzava un vittimistico “dopo anni di simile trattamento non deve insegnarmi lei come si fanno le domande in uno studio”. “Simile trattamento? Ma se siete al governo!”, diceva Padellaro. “Non credo che le domande possa insegnare lei a farle. I politici facciano i politici e i giornalisti facciano i giornalisti”, diceva Formigli, ma ormai Di Stefano era partito in quarta – sebbene inizialmente soltanto con mimica facciale avversa durante l’altrui intervento – anche contro il neo segretario del Pd, intervenuto in diretta telefonica e, en passant, contro Massimo Giannini, già vicedirettore di Repubblica e direttore di Radio Capital.

 

Tuttavia è quando la lotta è interna – tra gialli e verdi o tra gialli e gialli – che la virulenza del secondo si manifesta in tutta la sua potenza. E se in questi giorni lo scontro Lega-M5s è evidente al vertice, sono mesi che la lotta corre sottotraccia. Per esempio al Mise, diretto dal vicepremier grillino Luigi Di Maio. Anche i corridoi del ministero dello Sviluppo economico, infatti, riportano la leggenda metropolitana (verosimile) del quasi immobilismo forzato a cui sarebbe destinato, in questo quadro, il sottosegretario leghista Dario Galli, già parlamentare per quattro legislature, ex membro del cda di Finmeccanica, sindaco di Tradate e presidente della provincia di Varese. Uomo d’esperienza che, di fronte al Decreto dignità, intervistato da Valerio Valentini su questo giornale, definiva il provvedimento “insufficiente” con queste motivazioni: “L’aggravio contributivo dello 0,5 per cento sui rinnovi dei contratti a termine, che pure si aggiunge a un 1,4 per cento già voluto dalla sinistra, risponde alla volontà del M5s… e dunque, ma a livello del tutto personale, propongo che anziché mettere una penalizzazione del genere, s’introduca uno sgravio di mezzo punto come premio per chi stabilizza i contratti a termine. E’ una modifica piccola, lo so, ma significativa”. Solo che in quel momento dire “modifica” era già troppo, con un Di Maio che annunciava di non voler ammettere grosse correzioni al decreto. E anche se Galli ci teneva a farsi comunque vedere in linea con gli alleati a Cinque stelle (“questo governo vuole impegnarsi per dare dignità in primo luogo a categorie più svantaggiate”) e a sottolineare che la “volontà di cambiamento” dei gialloverdi era “reale”, si capiva già che la mentalità non era esattamente quella della “decrescita felice”. Né si può nascondere l’attrito tra faglie gialle e faglie verdi del governo al Viminale, sullo sfondo della questione immigrazione. E infatti, in febbraio, il suddetto sottosegretario grillino all’Interno Luigi Gaetti ha votato per l’autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini sul caso della nave Diciotti: “Su questi temi penso ci fosse un’idea precisa”, diceva, “nessun cittadino dovrebbe sottrarsi alla legge e io la penso in questo modo… Io ho alcuni provvedimenti giudiziari in causa civile per la mia attività parlamentare e andrò a difendermi nei processi e non dai processi”.

 

Laura Castelli contro Padoan, contro Tria e contro chiunque (anche dei suoi) dica qualcosa sul reddito di cittadinanza

Raffaele Volpi contro Trenta alla Difesa, Dario Galli lasciato in regime di “quasi immobilismo” nel regno di Di Maio al Mise

Alla Difesa, intanto, e non da oggi, va in scena sottotraccia la contesa ufficiosa tra il sottosegretario leghista Raffaele Volpi e il ministro a Cinque stelle Elisabetta Trenta, con crescendo palpabile del disaccordo sui corridoi umanitari (“invitiamo il ministro della Difesa, invece di polemizzare col ministro dell’Interno sui corridoi umanitari dalla Libia – con questo governo ci sono già stati e ancora ci saranno, basta informarsi – di preoccuparsi della situazione in cui versano le Forze armate italiane, con piani di investimenti in tecnologia, ricerca, sviluppo e risorse umane fermi, un’incertezza che rischia di lasciare l’Italia indietro rispetto a tutti gli alleati…”, diceva Volpi). Per non dire della divergenza di opinioni sugli F-35. E a un certo punto Volpi ha rilasciato un’intervista al Corriere della Sera in cui invitava il ministro al confronto sereno, e in cui si soffermava in particolare sui dossier “aziende del settore militare in crisi” e “missioni militari all’estero”, raccontando anche degli “sforzi di comprensione” fatti verso il ministro (della serie: la guerra dei mondi gialloverdi era già qui).

 

E però, quanto a litigiosità, non molti, tra i secondi, possono eguagliare Laura Castelli, già deputata piemontese a Cinque stelle e ora sottosegretaria all’Economia: la donna che nel settembre scorso criticava il ministro dell’Economia Giovanni Tria per l’intenzione di mantenere il rapporto deficit/pil all’1,6 per cento: “Vorrebbe dire non fare quasi niente”, diceva Castelli, “a meno che non si facciano solo tagli”. Se le toccano anche alla lontana e anche per questioni tecniche il reddito di cittadinanza e la sua attuazione, ché del provvedimento si sente in qualche modo madrina, Castelli non risparmia gli esponenti del suo stesso partito (ne sanno qualcosa al Mise il vice capo di Gabinetto di Di Maio Giorgio Sorial e, al ministero del Lavoro, Claudio Cominardi). Ma è verso gli avversari politici che Castelli si è resa per così dire indimenticabile: era il novembre del 2018 e la sottosegretaria era ospite a “Porta a Porta” con Pier Carlo Padoan, ex ministro dell’Economia nei governi Renzi e Gentiloni nonché ex direttore esecutivo per l’Italia del Fmi ed ex capo economista Ocse. E quando Padoan, anche docente di Economia, spiegava tecnicamente l’impatto dello spread sui mutui, Castelli, laurea Triennale in Economia aziendale, ribatteva: “E’ una bugia! I tassi dei mutui non dipendono dallo spread”. E siccome Padoan, nel secondo intervento, insisteva, Castelli se ne usciva con l’ormai virale “questo lo dice lei”, aggiungendo anche, a suggello, il mantra grillino sulla non-competenza: “Non è che perché uno ha studiato più di un’altra, quello che ha studiato ha per forza ragione”. E si restava un po’ increduli di fronte all’ennesimo caso di virulenza dei secondi, sottosegretari non molto nell’ombra, con buona pace del ministro titolare e suddetto bersaglio di Castelli Giovanni Tria.

Di più su questi argomenti:
  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.