Secondo la legge lo striscione contro Salvini non andava rimosso
La censura di Bergamo, in occasione di un comizio elettorale del ministro, viola il principio della pacifica libertà d'espressione
I recenti episodi che hanno portato la Polizia a intervenire per rimuovere manifestazioni di dissenso verbale nei confronti del ministro dell'Interno, Matteo Salvini, hanno riportato alla ribalta il dibattito sui limiti alla manifestazione del pensiero esercitata in contrapposizione al contemporaneo svolgimento di comizi elettorali.
Non c’è bisogno d’intrufolarsi in alcun codicillo giuridico per convincersi all’istante come una contestazione rumorosa che si tenga nello stesso momento in cui si svolga un comizio legalmente autorizzato, in modo da impedirne o renderne particolarmente difficoltoso lo svolgimento, assuma i caratteri dell’illiceità e meriti d’essere sanzionata. Chi è stato autorizzato a tenere un discorso in pubblico ha diritto di manifestazione del pensiero e gli astanti hanno il diritto di ascoltare e il dovere di consentire il regolare svolgimento della riunione. L’articolo 99 del D.P.R. n. 361/1957 chiarisce che “chiunque con qualsiasi mezzo impedisce o turba una riunione di propaganda elettorale, sia pubblica che privata, è punito con la reclusione da uno a tre anni e con la multa da lire 600.000 a lire 3.000.00”. La Corte costituzionale ha ricordato come “la turbativa dei comizi è un evento assai pericoloso per la sicurezza pubblica, tale da giustificare, sotto questo profilo, la previsione di pene edittali altrettanto gravi e pari a quelle previste per l'ipotesi d’impedimento” (Corte costituzionale, sentenza 125/1974).
Nei pochi casi che è possibile rinvenire nella giurisprudenza dei tribunali italiani si legge, tuttavia, che il reato si consuma non per mezzo di una qualsiasi manifestazione del pensiero, ma per il tramite di una condotta che, di fatto, impedisce il regolare svolgimento del comizio: ”Se, quindi, è ammissibile una manifestazione di dissenso, quale espressione del diritto di critica nei confronti del pensiero dell'oratore, essa deve essere rigorosamente mantenuta entro i confini dell'urbanità e della moderazione, senza essere colta a pretesto per dare sfogo alla propria animosità e intralciare il regolare svolgimento della riunione” (Corte d’Appello Catanzaro, sentenza n. 380/2008). L’espressione di un pensiero contrario alle idee politiche dei soggetti che hanno organizzato il comizio elettorale, dunque, non può essere considerata illecita a priori, e ciò in considerazione del valore costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero disciplinata dall’articolo 21 della Carta fondamentale, ma solo quando essa di svolga con modalità tali da impedire o turbare la riunione stessa.
Appare evidente, così, come l’esposizione di uno striscione di contestazione il cui contenuto non sia ingiurioso o sedizioso non possa di certo “impedire” la propaganda elettorale altrui, né turbarla, atteso che quest’ultimo verbo indica, secondo giudizio unanime dei dizionari della lingua italiana, l’azione del molestare, interrompere o comunque disturbare il regolare svolgimento di qualche cosa. Non c'è dubbio, di conseguenza, sul fatto che la frase “Non sei benvenuto” rivolta a un esponente politico o quella ancora più incisiva “Questa Lega è una vergogna” non possano rappresentare turbamento nel senso di disturbo del regolare svolgimento di un comizio.
Del resto, il comma 2 dell’articolo 1 della legge n, 212 del 1956 prevedeva già la possibilità anche per chi non partecipava alla campagna elettorale, di potere manifestare il proprio pensiero con riguardo alla contesa politica “soltanto in appositi spazi, di numero uguale a quelli riservati ai partiti o gruppi politivi e candidati che partecipano alla competizione elettorale…”. Quest’ultima norma, che riconosceva al cittadino comune il diritto di potere affiggere un manifesto di contestazione dell’opinione politica altrui, è stata abrogata nel 2013 solo per ragioni di contenimento della spesa pubblica. Il legislatore ha stabilito di ridurre le spese elettorali di 100 milioni di euro, eliminando così l’obbligo di predisporre appositi spazi anche per la libera espressione del pensiero politico da parte di qualsiasi richiedente (articolo 1, comma 400, lett. h, del decreto legge n. 147/2013).
L’abrogazione non può essere interpretata alla stessa stregua dell’eliminazione della libertà di manifestazione del pensiero ed è possibile, pertanto, ammettere con assoluta certezza come il legislatore abbia correttamente ritenuto che l’affissione di un manifesto (non ingiurioso, né sedizioso) all’interno degli appositi spazi elettorali da parte di un cittadino comune non possa integrare l’ipotesi di turbamento di una riunione elettorale, perché diversamente il comma 2 dell’articolo 1 della legge 212/1956 non avrebbe potuto convivere per 57 anni con l’articolo 99 del DPR 361/1957.
A ciò si aggiunga che negli altri casi in cui la legge vieta espressamente l’esposizione di striscioni o cartelli, lo fa solo quando essi rappresentino scritte o immagini che incitino alla violenza o che contengano ingiurie o minacce (come nel caso dell’articolo 2 bis del decreto legge 8/2007 adottato per prevenire e reprimere fenomeni di violenza connessi a competizioni calcistiche).
L’unica ipotesi che potrebbe giustificare un intervento così invasivo della forza pubblica (come quelli verificatesi negli ultimi giorni) nel caso di manifestazioni del pensiero del tutto inoffensive è quella di chi vorrebbe evitare che i soggetti intervenuti ad assistere al comizio elettorale dimostrino intolleranza inurbana nei confronti delle libertà altrui e diano luogo a condotte violente. Ma questo è un problema che dovrebbe essere risolto in tutt’altro modo, piuttosto che limitando la pacifica manifestazione del pensiero altrui. E la Polizia dovrebbe saperlo. O no?