Nicola Zingaretti (foto LaPresse)

Il Pd di Zingaretti, il partito “ma anche”

 I Democratici tra Pse e Macron, M5s e moderati, ipotesi di futuro incompatibili e profondissimi silenzi

Roma. “Dopo le elezioni vediamo”, dicono nel Partito democratico, e nessuno ne vuole (ancora) parlare apertamente. Eppure l’argomento è di quelli importanti, centrali verrebbe da dire a pochi giorni dalle elezioni del 26 maggio: il Pd è destinato a rimanere nel Pse o si sta invece preparando il suo ingresso nel gruppo riformista e liberale guidato dai francesi di En Marche, il partito di Emmanuel Macron? Carlo Calenda, capolista del Pd nel nord-est, ha già detto che gli piacerebbe e infatti non esclude affatto di entrare nel gruppo dei riformisti. Anche Matteo Renzi sostiene questa ipotesi, in privato, da un po’. E domenica scorsa, Stanislas Guerini, il delegato generale di En Marche ha incontrato il segretario del Pd Nicola Zingaretti a Torino: “Vogliamo unire i progressisti europei in un nuovo gruppo al Parlamento europeo. Vedremo se sarà possibile farlo anche con il Pd, dove molti temi ci uniscono”. Zingaretti, che oggi rivedrà Frans Timmermans, il candidato del Pse alla presidenza della Commissione europea, che ne pensa? Ecco questo è uno dei misteri meglio riposti nel partito del centrosinistra. 

 

E d’altra parte lo slogan del Pd in questa fase – slogan per qualcuno della surrealtà, è… “da Tsipras a Macron”. Il che significa che tutto è possibile, ogni strada resta aperta, percorribile, con quella vaghezza sorridente e pacifica che s’incarna nella figura del nuovo segretario, Nicola Zingaretti appunto: una forma di demagogia morbida e perbene che esclude risse e si concede quel genere di modulazioni di vita e di lavoro che gli americani chiamano easy, facili, rassicuranti. Eppure i critici, anche ferocemente ironici, non mancano, ovviamente. E tra quei (pochi) deputati che ieri sono andati a lavorare alla Camera, per lo più renziani o ex renziani, non era infatti difficile imbattersi in battutine e sorrisetti. Perché questo silenzio zingarettiano, e questa vocazione al massimo allargamento (quasi oltre i confini della fisica), se da un lato sembra a tutti giustificato dalla prudenza – bisogna aspettare i risultati elettorali – dall’altro comincia pure a rivelare aspetti in certi casi, secondo qualcuno, psicopatologici.

 

Per esempio: “Ma il simbolo con il quale ci stiamo presentando alle europee l’avete guardato bene?”, ride una deputata del Pd, nel bel mezzo del Transatlantico semivuoto. Ed è in effetti un simbolo semioticamente complicato, per così dire. C’è il logo del Pd in alto, che occupa solo metà dello spazio. Poi c’è la bandiera europea del “partito” di Calenda, sotto, che occupa l’altra metà. Poi ancora, più piccolo, a sinistra del simbolo del Pd (e senza invadere quello di Calenda) compare anche un quadratino rosso socialista con la sigla del “Pse, socialisti & democratici”. E infatti gli amici di Articolo1, quelli che un tempo si chiamavano Mdp, cioè il partito di Bersani e di D’Alema, sono candidati nelle liste del Pd, ma fanno campagna elettorale con un simbolo che non comprende affatto il logo del Pd ma solo quello del Pse. Mentre Calenda, che sta in quelle stesse liste, non si riconosce nel Pse e infatti dice che forse dopo entrerà in En Marche, partito che intanto candida nel Pd una sua iscritta francese – c’è stato uno scambio Erasmus con Sandro Gozi candidatosi a Parigi – malgrado però il Pd non sia affatto iscritto a En Marche ma al Pse. E un po’ in effetti questa descrizione fa girare la testa. Confonde. “Schizofrenia spinta”, ridono, esagerando con la malizia, alcuni deputati del Pd non precisamente sostenitori del nuovo segretario.

Ed è come se Zingaretti volesse immobilizzare tutto attorno a sé, tempo e spazio, storia e paesaggio, allargando, non definendo, sorridendo a tutti e tutti accontentando: socialisti, riformisti, liberali e vetero comunisti. Ma nemmeno l’Unione di Prodi, il caravanserraglio che vinse pure le elezioni, era una ammucchiata che stava insieme tanto per stare insieme. L’Unione non era un fine, ma un mezzo, certo pasticciato, ma pur sempre un mezzo. Una vicenda politica che si rispetti deve prevedere a un certo punto il rischio della chiarezza, l’avventura che liquida l’elemento vischioso, burocratico, ordinario e antieroico della vita politica. Pse o En Marche? Liberali e moderati o Cinque stelle e anelli al naso? Il cittadino che decide, e anche il partito che segue il leader, devono percepire che l’ambizione ha un costo. Il rischio, rilevano in tanti – ma c’è tempo per rimediare – è che la nuova stagione cosiddetta s’incroci con le vecchie: non fa né caldo né freddo, ogni emozione è spenta e le migliori intenzioni lastricano le vie di un inferno che potrebbe annunciarsi di purissima noia e irrilevanza.

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