Il voto tra bolla e realtà
Il sovranismo non è inevitabile. Pensatela un po’ come volete su Renzi e Calenda, ma il loro incontro è stato una carezza
La bolla liberale s’è ritrovata lunedì sera a Milano, all’auditorium Mahler, stretta stretta, in piedi, per terra, tutto esaurito, gente che non è riuscita a entrare, un calore spontaneo, quasi liberatorio: vogliamo applaudire noi, questa volta. Sul palco, nell’ordine, Carlo Calenda, Caterina Avanza, Irene Tinagli e, gran finale, Matteo Renzi, la famiglia europeista riunita, allegra, ironica, affiatata: le liti, lunedì sera, erano esclusiva del governo dei dispetti rinchiuso nel suo Consiglio dei ministri saturo di rancori.
A Milano è facile, direte voi, se non riempi i teatri lì, dove?, se non accendi i cuori milanesi, quali?, ma non è del tutto vero: Milano è pur sempre la città di Matteo Salvini, anche se nella foga di raccontare la caparbietà della sua internazionale nazionalista – nella quale piove dentro, esattamente come a piazza Duomo domenica – ce lo siamo dimenticati. A Milano non è poi così facile, non lo è da nessuna parte, ma in quell’auditorium desideroso di standing ovation s’è visto quel che a lungo è mancato: una possibilità. Sono quattro mesi che, in vista delle europee, non si fa che sviscerare l’associazione trasversale populista, gli amici della Lega di qui, quelli dei Cinque stelle di là – ci siamo dovuti occupare di partiti oscuri dalle storie improbabili e dalle speranze da zerovirgola: che pena – e critiche sugli europeisti che non sanno parlare di Europa, non sanno unirsi, non sanno coalizzarsi, senza voce, senza idee, senza respiro, registri anonimi di occasioni mancate.
Invece no. Per una sera – ma forse non è solo una sera, forse è solo un inizio, con la magia e un pizzico di illusione di tutti gli inizi – è risuonata forte la possibilità più bistrattata di questa stagione di strazi ideologici: il sovranismo non è inevitabile, il sovranismo non è per sempre. Basta con la rassegnazione, con l’istinto di chiudersi in casa e aspettare che passi, “basta con la Lega al 30 per cento, a casa mia la Lega è al 17 e io le partite a tavolino non le ho mai date vinte”, come ha gridato Calenda tra gli applausi. L’errore è rassegnarsi, la condanna è rassegnarsi, ed è stato questo il filo rosso che ha unito la serata, passando per l’ispirazione macroniana della Avanza e per la determinazione consapevole (e ironica e accogliente) della Tinagli, fino a Renzi, il simbolo di questa reunion, che al primo scatto assieme a Calenda lo ha indicato come a dire: è merito suo se siamo qui insieme, ma ora che ci siamo l’impegno deve essere di tutti, il mio, il tuo, il suo, il nostro. Renzi ha messo nomi, facce e dichiarazioni al veto di Calenda “non si fanno compromessi con chi ha quell’idea di democrazia”, raccontando quest’anno di governo gialloverde e le sue brutture, fatti di cronaca intrecciati ad analisi politiche, con un occhio a quel che avviene fuori dai confini nazionali, perché là fuori c’è un’Europa, un mondo, da gestire, da governare, e non è bella questa Italia che, dice Renzi, “non conta più una cippa”.
Tra qualche giorno si vota, ci si conta, ci si confronta: il risveglio non sarà facile, gli equilibri sono tutti da trovare, il fuoco nemico e quello amico sono lì pronti a riprendersi spazi. Ma questi sono affari di palazzo: la gente – gli altri direbbero: il popolo – che si avviava verso l’uscita dopo i saluti e i selfie finali si guardava con aria complice, divertita, sollevata: il sovranismo non è inevitabile, andiamo a vivercela, questa possibilità, per una sera ha persino l’aria di una carezza.