Il fallimento non è un'opinione
A certificare il flop gialloverde non sono solo i dati dell’economia (Istat, Ocse, Confindustria) ma sono anche gli azionisti della maggioranza. Così Lega e M5s scoprono che per essere credibili occorre rinnegare un anno di governo. Risate
Che cosa tiene insieme la relazione del presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, la campagna elettorale di Luigi Di Maio, gli sfoghi di Giancarlo Giorgetti, il duello ingaggiato da Matteo Salvini con il suo alleato di governo, i numeri dell’Istat sull’anno in corso, le parole di Giovanni Tria sugli ottanta euro e le ammissioni del presidente del Consiglio Giuseppe Conte sul futuro dell’Iva?
A pochi giorni dalle elezioni europee, c’è un dato politico significativo che riguarda la stravagante e straziante campagna elettorale in corso e che ha a che fare con una questione importante legata agli ultimi dodici mesi vissuti dal nostro paese: il fallimento del contratto di governo. Il dato politico significativo è che ad accertare il fallimento del contratto di governo non sono soltanto i numeri dell’economia (due giorni fa, l’Ocse ha previsto che nel 2019 in Italia caleranno i consumi, aumenterà il debito, salirà il deficit; ieri l’Istat ha previsto che nel 2019 in Italia diminuirà la crescita rispetto al 2018, da più 0,9 a più 0,3, aumenterà la disoccupazione, fino al 10,8 per cento, caleranno gli investimenti, passando dal 3 per cento del pil allo 0,3 per cento del pil, il tutto con un contribuito alla crescita derivato dalla manovra economica del governo pari a zero). Ma sono anche gli stessi protagonisti del governo, che grazie a una campagna elettorale combattuta più per fare male al proprio alleato che per fare male alle opposizioni si ritrovano a far parte di un governo che nessuno, al suo interno, sembra avere più il coraggio di difendere.
I litigi tra Salvini e Di Maio hanno contribuito a creare l’illusione farlocca che l’Italia sia dominata da un bipolarismo formato da due differenti sfumature di populismo. Ma allo stesso tempo hanno permesso a molti elettori di ritrovarsi di fronte a un fatto anomalo e spassoso che è questo: i due azionisti del governo, a forza di insultarsi l’uno con l’altro, hanno passato buona parte della campagna elettorale a denunciare l’incapacità non solo del proprio alleato ma anche del proprio governo. Succede così che il numero due di Palazzo Chigi, Giancarlo Giorgetti, ripeta, disperato, che con un governo così non si può più andare avanti.
Succede così che il ministro dell’Economia riconosca, stremato, che con un’economia come quella in cui si trova oggi l’Italia sarà inevitabile nella prossima legge di Stabilità eliminare gli ottanta euro di Renzi. Succede così che il presidente del Consiglio riconosca, sconsolato, che con una crescita come quella che ha oggi l’Italia sarà molto difficile non aumentare l’Iva nella prossima legge di Stabilità. Succede così che il ministro del Lavoro, per contrastare il ministro dell’Interno, ammetta che sui rimpatri il governo non ha fatto nulla. Succede così che il ministro dell’Interno, per contrastare il ministro del Lavoro, ammetta che sul tema della creazione del lavoro il governo non ha fatto nulla. Succede così che il Movimento 5 stelle, per contrastare la Lega, ammetta, scaricando le responsabilità su Salvini, che l’Italia ha un grave problema legato allo spread troppo alto. Succede così che la Lega, per contrastare il Movimento 5 stelle, ammetta, scaricando le responsabilità su Di Maio, che l’Italia deve smetterla di giocare con la moviola sulle infrastrutture. Succede così che il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, per tentare di risultare credibile di fronte a una platea di imprenditori debba lasciare intendere in ogni sua affermazione di essere pronto a fare qualsiasi cosa pur di non attuare pienamente ciò che è stato inserito nel contratto di governo.
E succede così che uno dei due vicepresidenti del Consiglio, Luigi Di Maio, ringrazi il capo degli industriali, Vincenzo Boccia, dopo essersi sentito dire che il governo può intraprendere una strada corretta solo a condizione che cominci a fare il contrario di quanto fatto finora e dopo essersi sentito dire che “le parole che producono sfiducia sono contro l’interesse nazionale”, che le parole di chi governa “non sono mai neutre ma influenzano le decisioni di investitori, imprenditori e famiglie”, che “il paese non riparte con lo slancio dovuto, necessario, che è alla nostra portata, che ci meritiamo”, che “per rimetterci a correre sarà utile liberarci dal peso di parole che inducono alla sfiducia”.
Matteo Salvini, in una delle rarissime (!) interviste concesse in campagna elettorale, ieri ha ripetuto che non c’è motivo di credere che il governo sia finito, che non c’è motivo di credere che l’alleanza tra il M5s e la Lega sia finita, che non c’è motivo di credere che dopo le europee si tornerà a votare. La realtà è che, a pochi giorni dalle elezioni, la campagna elettorale del M5s e della Lega ci dice persino meglio dei dati dell’Istat e delle previsioni dell’Ocse (e del Def) che il contratto di governo ha fallito, che l’Italia governata dai populisti sta peggio di un anno fa e che entrambi gli azionisti di governo sanno perfettamente che l’unico modo per essere credibili in campagna elettorale è parlare di tutto tranne di quello che hanno fatto in questo anno al governo, se non per rinfacciare al proprio alleato di essere lui il responsabile dei danni combinati insieme. Chissà se il 26 maggio se ne accorgeranno anche gli elettori.
L'editoriale dell'elefantino