Io no spic inglish. I candidati italiani alle Europee hanno un problema con l'inglese
Solo un terzo di chi si presenta al voto lo parla a un livello medio-alto. Eppure tra Bruxelles e Strasburgo è essenziale conoscere altre lingue. Quanto costa alla nostra diplomazia l'incompetenza linguistica
Un’azienda non assumerebbe mai una persona che sa parlare solamente l’italiano per contrattare con i fornitori stranieri. I partiti italiani invece non considerano la conoscenza delle lingue straniere, e soprattutto dell’inglese, un prerequisito per i candidati al Parlamento europeo: solo 1 su 3 conosce l’inglese a livello avanzato e sempre un terzo non supererebbe nemmeno una verifica delle scuole superiori. Eppure gli europarlamentari si rapportano quotidianamente con colleghi, funzionari e lobbisti che non parlano la nostra lingua. Li abbiamo contattati uno a uno, tra le fila di Forza Italia, Partito Democratico, Movimento 5 Stelle e Lega, e aggregato le informazioni sulle loro competenze linguistiche, come altri hanno analizzato differenti aspetti personali.
A cosa servono le lingue straniere
Una delle differenze più visibili tra le aule di Bruxelles e Strasburgo e il Parlamento italiano sono le cuffiette per la traduzione simultanea. Agli incontri delle commissioni parlamentari e alle sessioni plenarie ciascuno può parlare nella propria lingua, grazie al lavoro degli interpreti, e i testi ufficiali approvati dal Parlamento vengono tradotti in tutti gli idiomi dell’Unione europea: ma questi servizi servono soprattutto per rendere trasparenti i lavori parlamentari ai cittadini e ai giornalisti dei diversi paesi. Se dovesse fare affidamento solo sulla propria lingua, un parlamentare europeo troverebbe enormi difficoltà a intervenire in tutte le fasi che precedono le votazioni finali sugli emendamenti e i testi, cioè quando si decide davvero. Come se un parlamentare italiano non potesse interagire coi colleghi in Transatlantico, alla buvette o nei ristorantini in prossimità del Parlamento: il suo peso politico sarebbe prossimo allo zero. Essere in grado di lavorare in inglese, o almeno in francese, significa poter reagire in tempo alle bozze dei testi legislativi (le traduzioni nelle lingue minori arrivano più tardi, e in alcuni casi non vengono realizzate affatto). Dà la possibilità di costruire rapporti di fiducia coi colleghi del proprio gruppo e della propria commissione parlamentare. Ma soprattutto significa poter partecipare agli incontri informali, concludere mediazioni e accordi, creare consenso attorno alle proprie posizioni. Così facendo si potrebbero difendere quegli interessi italiani sui quali tutti i partiti stanno costruendo la loro campagna elettorale. Interessi che però possono essere salvaguardati solo tramite un’opera continua e puntigliosa nelle riunione tecniche e politiche, dialogando con politici stranieri influenti.
Come spiega al Foglio Lorenzo Consoli, corrispondente di lungo corso da Bruxelles, circa il 90 per cento della legislazione europea ormai viene approvata col metodo del “trilogo”. Significa che, ancora prima che il Parlamento concluda la prima lettura di una proposta di legge, si aprono i negoziati con il Consiglio dei ministri e la Commissione. Il relatore del Parlamento, assieme ai correlatori, inizia subito a trattare. “Sono negoziati informali, in cui è essenziale poter parlare inglese”, dice Consoli: solo chi è in grado di farlo può pensare di diventare relatore di un dossier importante e dunque esercitare un’ampia influenza sui contenuti dei nuovi provvedimenti. Lo conferma al Foglio anche Elly Schlein, europarlamentare progressista uscente: “Quando ci sono da fare riunioni di negoziato una buona conoscenza delle lingue è molto, molto utile, perché rende il ragionamento più fluido e meno macchinoso. A volte si tratta anche di giocare un po’ d’astuzia e di avere una buona retorica per convincere gli altri relatori e negoziatori, quindi lì conoscere le lingue può davvero aiutare molto”. Perché “al Parlamento europeo la differenza la fanno davvero le persone. Diversamente dalla politica nazionale, lì sui singoli dossier si creano spesso delle maggioranze diverse e trasversali”, in mancanza di una divisione netta tra maggioranza e opposizione. È per questa ragione che Lorenzo Consoli definisce il Parlamento europeo “un luogo di negoziato costante”, a cui partecipano tutti i gruppi politici. I rapporti personali che si riescono a costruire con i colleghi degli altri gruppi diventano determinanti in questo processo, e dunque la conoscenza delle lingue straniere aiuta in modo decisivo.
Cosa dicono i dati
Tra i quasi 300 candidati delle quattro liste principali (Pd, Fi, Lega, M5s), ha risposto alla nostra indagine circa il 70 per cento, soprattutto tra i 5 Stelle – che hanno caricato online tutti i curriculum e premiato la conoscenza dell’inglese almeno a livello B2 (medio-alto) – e il Pd. Ma anche tra Lega e Forza Italia ha risposto la maggioranza dei candidati. Abbiamo raccolto le competenze dichiarate da curriculum reperibili online e dai candidati stessi, o dai loro staff (naturalmente non è stato possibile sottoporli a test di lingua, anche se alcuni, come Alessandra Mussolini, hanno voluto darci prova delle loro competenze conversando al telefono in inglese). I dati, anonimi, sono scaricabili qui. Ovviamente, trattandosi di autodichiarazioni possiamo aspettarci che qualche candidato sia stato vago o troppo generoso con sé stesso. Inoltre, è probabile che tra chi non ha risposto all’indagine compaiano candidati meno interessati a divulgare le informazioni sulle proprie competenze linguistiche; un minore interesse che potrebbe essere legato a una scarsa conoscenza delle lingue straniere. Questi due fattori potrebbero rendere i risultati individuati in parte sovrastimati.
Le differenze tra i partiti sono significative, come mostra il primo grafico: se sul totale delle risposte chi conosce in modo avanzato la lingua inglese (livelli C1 e C2) è il 34 per cento, questo dato arriva al 41 per cento per il Pd, mentre 5 Stelle e Lega sono in linea con la media: circa 1 su 3. Più in basso invece Forza Italia, in cui solo 1 candidato su 5 afferma di conoscere l’inglese a livello avanzato.
Le differenze tra le competenze linguistiche dei vari candidati possono essere influenzate dall’età. Più si è giovani, maggiori sono le probabilità di sapere meglio l’inglese, anche se questo legame non è così forte come si potrebbe immaginare. Tra i candidati al di sotto dei 40 anni, solo 5 (sui 31 che hanno risposto) hanno un livello di inglese inferiore al B2, mentre la maggior parte di chi ha più di 60 anni si trova al di sotto di quella soglia. Qualche differenza, seppure abbastanza flebile, emerge anche se si guarda all’insieme dei candidati che si presentano nelle diverse circoscrizioni. Il nord-est risulta primo per la conoscenza dell’inglese, con una media superiore al B2. A seguire il centro, anch’esso sopra il livello medio-alto, poi nord-ovest e poco sotto sud e isole, che si collocano invece a un livello di inglese medio inferiore al B2.
Le altre principali lingue europee, come lo spagnolo, il tedesco e il francese, possono invece essere utili non tanto per comprendere i documenti, ma per dialogare informalmente con gli altri membri del Parlamento e con i funzionari. Il livello minimo per riuscirci è quello medio-alto, indicativamente il B2. Questa soglia è raggiunta per il francese da circa un terzo dei candidati che ha risposto alla raccolta di informazioni, mentre per lo spagnolo si tratta del 13 per cento e per il tedesco di solo il 4 per cento. A primeggiare nel francese è il Partito Democratico (34 per cento almeno B2), mentre sullo spagnolo e sul tedesco è la Lega (rispettivamente, 5 e mezzo e 16 per cento). Da questo punto di vista nelle liste si scoprono anche alcune storie individuali interessanti e di valore. Come quella di Paolo Borchia, candidato per la Lega nel nord-est, che lavora da dieci anni al Parlamento europeo e afferma di conoscere alla perfezione l’inglese e molto bene il francese e lo spagnolo. Oppure quella di Cinzia Dal Zotto, che corre per il Movimento 5 stelle nella stessa circoscrizione e che ha alle spalle una carriera accademica tra la Germania, la Svezia e la Svizzera. Anche il Pd candida una serie di persone che hanno maturato esperienza grazie a carriere professionali in Europa, a partire da Beatrice Covassi e Virginia Puzzolo, entrambe funzionarie della Commissione europea. Ci sono poi le lingue minori, spesso tracce di periodi in Erasmus più o meno lontani: affiorano rudimenti di catalano, ceco, olandese, svedese, rumeno e polacco. E poi naturalmente le lingue extraeuropee, eredità di storie familiari. È il caso di Mamadou Sall (Pd), che parla la lingua wolof del Senegal, di Amir Atrous (Fi) e Leila Keichoud (Pd), che parlano l’arabo, e di Gerarta Ballo (Pd), che ha trascorso l’infanzia in Albania.
L’europarlamentare non si fa da casa
Gli studi sui comportamenti linguistici dei parlamentari europei suggeriscono che proprio gli italiani facciano particolare fatica a sfruttare appieno il proprio peso politico a causa del limite linguistico. La difficoltà sarebbe invece minore per i deputati provenienti dai paesi meno popolosi, per i quali è naturale dover imparare almeno una lingua straniera, così come per quelli di madrelingua inglese e francese, che spesso riescono a comunicare nel loro idioma. Per un italiano che vive a Bruxelles è relativamente rapido imparare un francese accettabile, ma se fino a una dozzina di anni fa si poteva ancora riuscire a condurre con successo negoziati complessi senza sapere l’inglese, le prassi attuali del Parlamento non lo permettono più. “L’inglese ha ormai preso il sopravvento all’interno delle istituzioni europee”, osserva Lorenzo Consoli, “soprattutto dopo gli allargamenti a Est del 2004-2007”. Probabilmente la Brexit rafforzerà ancora di più questa tendenza, dato che verrà meno il rischio di un’egemonia culturale britannica.
Ai candidati alle elezioni europee non viene quasi mai chiesto se sanno parlare lingue straniere. Il livello di conoscenza in particolar modo dell’inglese è invece un’informazione chiave di cui gli elettori dovrebbero poter disporre, e un prerequisito che i partiti dovrebbero tener presente quando stilano le liste. È probabile che in Italia si ponga così poca attenzione alla questione per via del sistema elettorale a preferenze. Rispetto ai colleghi di altri paesi, dove sono previste liste bloccate, gli eletti sono spinti a trascorrere più tempo nei collegi di elezione e dedicarne meno a Bruxelles, per coltivare il legame personale con il territorio. In questo modo per le segreterie di partito diventa meno necessario proporre candidati che sappiano destreggiarsi (e quindi comunicare) nelle negoziazioni di Bruxelles. Infatti le preferenze spingono i partiti a puntare su candidature di figure popolari, che non sempre sono adatte a lavorare al Parlamento europeo. Per quanto possano essere bravi i suoi assistenti, a Bruxelles e Strasburgo un europarlamentare che parla solo la propria lingua finirà rapidamente per ritrovarsi marginalizzato. Se molto motivato parteciperà comunque ai lavori del Parlamento, premendo diligentemente il pulsante in aula al momento giusto. Altrimenti ci andrà di rado, e alla prima occasione utile lascerà il seggio per tornarsene in Italia. E tanti saluti agli “interessi italiani da difendere” su cui qualche partito sta facendo campagna elettorale, senza sempre curarsi di come riuscirci.