Il M5s già prepara l'appeasement: per Salvini rompere sarà difficile
Proposte di appoggi esterni, allargamento della maggioranza. Tutta la fuffa in vista di una crisi che (forse) non ci sarà. Una guida
Roma. Il messaggio è arrivato con tutti i crismi dell’ufficialità: e cioè sotto forma di ambasciata offerta da un uomo di governo della Lega. Il quale, in veste di delegato del Capitano, la scorsa settimana ha prospettato agli alleati del M5s una possibile soluzione d’emergenza: “Se non si andrà al voto anticipato, dopo le europee, allora noi offriamo un appoggio esterno a un vostro governo”. Ne sono scaturiti sguardi assai interdetti da parte dei grillini, che del resto a loro volta, nel clamore sgangherato di quei giorni di baruffa elettorale, avevano lasciato filtrare ai colleghi del Carroccio, attraverso il ministro Riccardo Fraccaro, un possibile allargamento dell’area di governo fino a includere Fratelli d’Italia, necessario per puntellare una maggioranza che al Senato è ormai fatiscente: “Poi magari si valuta sui singoli provvedimenti come votare”. Ipotesi tutte da verificare, significative dello sbandamento dei gialloverdi, ma che in fondo testimoniano di come, sulla possibilità di una fine anticipata della legislatura, nessuno ci creda più di tanto.
Certo, Giancarlo Giorgetti ci spera. “Quando sei in guerra non puoi avere paura di cadere”, è la frase che risuona tra i suoi confidenti in queste ore: come a volere spronare un tentennante Matteo Salvini ad accollarselo davvero, l’onere della rottura. Della bontà di questa strategia il sottosegretario alla presidenza si sarebbe definitivamente convinto dopo l’ultimo suo colloquio col capo dello stato, il 10 maggio scorso. “Mattarella è preoccupato, teme che la crisi politica si inasprisca”, ha riferito ai suoi fedelissimi Giorgetti, che da quella chiacchierata al Quirinale è uscito con la convinzione che no, Sergio Mattarella non si metterebbe affatto di traverso se l’impossibilità di andare avanti divenisse conclamata: “Certo – è il ragionamento di Giorgetti – un tentativo di verificare l’esistenza di maggioranze alternative si farebbe, ma in modo rapido e senza immaginare alchimie strane”. Il che dovrebbe convincere Salvini, da mesi titubante sulla possibilità che, una volta fatto saltare il tavolo, la Lega possa finire marginalizzata, esclusa da un’eventuale grande coalizione a sostegno di un governo di emergenza. “Questa prospettiva non esiste”, ripetono in parecchi al capo della Lega. “Se si rompe, si vota a fine settembre”.
Servirà un pretesto, però, per innescare la crisi. E per quanto possa apparire strano, non sarà facile trovarlo. Perché nel quartier generale del M5s si è già stabilito che la stagione della belligeranza verrà archiviata alla chiusura dei seggi, domenica sera. Lo ha capito anche Stefano Candiani, che dopo avere chiesto delucidazioni sul perché dell’improvviso voltafaccia sul ripristino delle province (“C’era un disegno concordato, scritto di fatto insieme a Laura Castelli”, ripete il sottosegretario leghista all’Interno), si è sentito rispondere, con impensabile candore, che “dopo il 26 tutto si sistemerà”.
Segnali, come lo sono pure quelli che arrivano sull’autonomia. In queste settimane Luigi Di Maio ha ostentato fermezza: “Così non va, quel disegno spacca il paese”, ha ripetuto il vicepremier, come se quella stessa proposta non fosse sostenuta anche dai suoi, in Veneto e Lombardia. “Serve a rassicurare i nostri elettori da Roma in giù”, dicono i consiglieri del capo grillino, i quali sanno bene che è proprio al meridione che, paradossalmente, “si rischia il suicidio”. E’ nelle regioni del mezzogiorno, infatti, granaio elettorale del M5s, che ci si aspetta una affluenza minore: del resto già nel 2014, a fronte di un 65 per cento al nord e di un 62 al centro, nelle circoscrizioni del sud e delle isole gli aventi diritto che si recarono alle urne furono rispettivamente il 52 e il 42 per cento. Un dato simile, evidentemente, spingerebbe verso il basso il risultato a livello nazionale. “Ti sembra un caso che la ministra Giulia Grillo si sia messa a fare post su Facebook in catanese?”, sorride uno degli strateghi della comunicazione a cinque stelle. Stessa logica per cui, insomma, all’autonomia bisogna dire ora un netto no, che poi si smusserà all’indomani dello spoglio: “Perché a quel punto lo portiamo in Parlamento, il testo dell’intesa, e li ce la giochiamo”.
Stesso discorso per la flat tax: qualcuno nella Lega spera nella contrarietà dei grillini per avere a disposizione un alibi perfetto per invocare il tradimento del contratto. Ma anche lì, Di Maio non opporrà nulla più che dei distinguo. Sarà insomma un po’ come tirare i pugni contro un sacco di sabbia: il ventre molle del grillismo, nel terrore di una fine repentina delle carriere politiche, accetterà qualsiasi compromesso. Perfino, forse, la Tav, il cui iter prosegue quasi indifferente agli strepiti della campagna elettorale. Martedì prossimo, mentre ancora tutti staranno lambiccandosi sulle percentuali del voto, si chiuderà la prima fase dei bandi: le novanta imprese da sedici diversi paesi dovranno formalizzare il loro interessamento ai lavori, e a quel punto si avvierà un’istruttoria da parte di Telt, la società italo-francese che sta costruendo l’opera.
Poi, entro metà giugno, partirà anche un nuovo negoziato con la Commissione europea, che verificherà lo stato di avanzamento dei lavori e, sulla base di questa valutazione stabilirà l’ammontare dei prossimi finanziamenti (ballano almeno 2 miliardi da assegnare tra il 2020 e il 2021). “Di qui a un paio di settimane – spiegano i tecnici del Mit – sarebbe insomma il caso di sciogliere qualsiasi riserva”. Di Maio nicchia: “E’ tutto in mano a Giuseppe Conte, che sta ridiscutendo l’opera insieme al presidente Emmanuel Macron”. Eppure di messaggi ufficiali, sul tema, dal 9 marzo a oggi, al governo francese, non ne sono arrivati. Per dire di come anche quest’ultima trincea – specie dopo le regionali del Piemonte, dove il M5s si aspetta un misero 18 per cento, tre punti sotto al precedente risultato del 2014 – potrebbe essere abbandonata a breve, dal M5s, in nome di un rinnovato appeasement del cambiamento. E rompere, allora, per Salvini diventerà ancora più complicato.