Salvini a Palermo per l'anniversario di Capaci. Foto LaPresse

Salvini al ficodindia

Carmelo Caruso

Ma la Sicilia non s’è ancora consegnata al vicepremier: gli batte le mani quando arriva, lo canzona quando parte. L’incognita dello sbadiglio

Nelle piazze lo festeggiano ma in segreto lo spernacchiano. Non sono infatti i balconi di Milano a spaventare e impensierire Matteo Salvini ma sono gli ingravidabalconi siciliani a raggirarlo e disobbedirgli. E dunque è stato un momento di altissima televisione, come se fosse appunto una gag, vedere Salvini e Massimo Giletti leggere insieme quel lancio d’agenzia che smentiva in diretta (“Finché sarò io ministro da quella nave non scenderà nessuno”) quanto da vicepremier aveva urlato il giorno prima dal suo palco. Si sa, per sua testimonianza, che nella libreria del leader della Lega non sono presenti i testi di Luigi Pirandello (ed eccone un altro di Agrigento!) ma più di uno avrà pensato che, per Salvini, la Sicilia è ancora l’isola della trappola, la stanza della tortura, e che, come scriveva quel diavolo che ha scoperchiato la coscienza, ci sono momenti in cui “la realtà non può che tremare tutta e scoprirsi fittizia e inconsistente“. Neppure le prerogative di un ministro possono alle volte superare il codice e le arguzie del diritto. E così, a smontare Salvini, al momento, non è l’opposizione ma il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, che, per la seconda volta, ha favorito lo sbarco dei migranti della nave Sea Watch. E’ lo stesso procuratore che ad agosto, mentre Salvini faceva in mare manovre da Capitano, ha preso la decisione di iscriverlo nel registro degli indagati. Tutti sanno che, da allora, il duello rusticano si è consumato con la richiesta di “soddisfazione” in diretta Facebook (“Processatemi anche domani“) ed è finito con Giulia Bongiorno (siciliana) che da buona padrina ha negoziato la resa e consigliato al suo assistito di servirsi dell’immunità.

      


Prima di fare scorrerie populiste nel Mediterraneo, non era mai sceso oltre la Puglia. La Maraventano, vicesindaco leghista a Lampedusa


        

Ora non occorre ricordare che la relazione fra Salvini e la Sicilia è stata una corrispondenza di insolenze e che Salvini è libero di cambiare le sue teorie etnocentriche così come i siciliani (che però hanno il vizio della memoria) di ripresentargliele e deriderlo. E però, è un fatto che questa Sicilia si presenta a Salvini proprio come il nuovo mondo si presentava agli spagnoli, che è vero, l’hanno colonizzato, ma trasportando nel vecchio sia le scoperte sia le pandemie degli indios.

    

Al contrario di Umberto Bossi che la Sicilia l’ha maltrattata ma sposandola (ha geni siciliani la sua Manuela), Salvini non era mai sceso, prima di fare scorrerie populiste nel Mediterraneo, oltre la Puglia dove, ha raccontato la prima moglie Fabrizia Ieluzzi a Vanity Fair, si è sposato intonando insieme ai suoi vecchi amici antichi cori antimeridionali. E vale dunque la pena chiedersi: come ci si misura con i meridionali più meridionali? Come ci si misura, da leghista, con la Sicilia? Non si vuole fare abuso, e se ne fa, della lezione di Leonardo Sciascia eppure a Salvini non guasterebbe leggere Fatti diversi di Storia letteraria e civile dove si ragiona a fondo della specialità di questo popolo e della sua geografia: “I siciliani sono generalmente più astuti che prudenti, più cauti che sinceri, amano le novità, sono litigiosi, adulatori e per natura invidiosi; sottili. La loro natura è fatta di due estremi: sono sommamente timidi e sommamente temerari”. Davvero temerari. Tra le regioni del sud che hanno sperimentato la Lega, la Sicilia è stata la prima. Nel 2007, proprio a Lampedusa, dove Salvini non ha mai pensato di volare con l’aereo (del resto a portare il Verbo e le corone di rosario ci aveva già pensato Papa Francesco nel suo primo viaggio da Pontefice), Angela Maraventano veniva eletta vicesindaco con la parola d’ordine “Stop agli sbarchi”. Salutata come un ulteriore esempio di corda pazza, l’elezione della Maraventano era solo la spia della storia che avrebbe portato Salvini, ma solo qualche anno dopo, ad apprezzare la gastronomia siciliana senza tuttavia digerirla.

                


Alle ultime comunali, in ogni piazza ha fatto il pieno, la Lega ha fatto fuochi d’artificio ma si è spenta al primo turno


      

Non c’è dubbio che in questo tentativo di assalto al cielo da parte di Salvini, a cui ormai va stretta la nazione, i siciliani sono tra quelli che più stanno contribuendo a rallentarne l’imbarco. Non c’è solo Patronaggio che Salvini, se potesse, processerebbe. A Palermo, la sua presenza, per commemorare l’anniversario dell’assassinio di Giovanni Falcone, ha fatto riemergere l’antimafia che, già screditata di suo e dalle inchieste, si è frantumata ulteriormente. Partecipare o non partecipare insieme al nemico? La sorella di Falcone, Maria, che da ventisette anni invita tutti i ministri, ha ribadito quanto sia doveroso invitare Salvini, ma il fratello di Peppino Impastato, altra vittima della mafia, l’Anpi e l’Arci hanno invitato i giovani a boicottare le celebrazioni e a fare una balconata contro il vicepremier. Claudio Fava, figlio del giornalista Pippo Fava, ucciso dalla mafia, ha deciso di non partecipare e non per Salvini che “ha il dovere di venire”, ma perché il ricordo si è mutato in “un festino di Santa Rosalia e perché non se ne può fare un comizio” insomma un’adunata sovranista. L’antimafia srotola, a sproposito, il lenzuolo, e la memoria, di Giovanni Falcone contro Salvini, ma Salvini anziché unire è sapiente nel guidare la ruspa e abbattere. Da quando è al ministero non ha mai indossato l’uniforme severa da uomo di stato e dunque non ha mai fatto nulla per evitare che gli spelacchiati, ultimi quelli dell’antimafia, sui balconi ci salissero. Ma nella stessa città, a Palermo, si è aggiunta anche la timidissima e mite professoressa d’italiano, Rosa Maria Dell’Aira, sospesa dai federali di Salvini, che vogliono adularlo e compiacerlo per ottenere i gradi e le stellette. Ebbene, lei non è caduta nella trappola di chi voleva farla salire sul balcone e così facendo ha rispedito sui banchi lo studente Salvini. Rimpicciolito dalla dolcezza di questa donna, non ha potuto far altro che ordinare il suo ritorno a scuola. Dall’altra parte della Sicilia, a Catania, Salvini ha invece compreso tutto il valore calorico e la carica bellica che si nasconde e si concentra nell’arancino/a. Il 22 agosto, quando il paese guardava quel porto, i catanesi hanno “lanciato”, come salvagente, croccanti palle di riso ai migranti trattenuti a bordo per volere del ministro convinto così di ricattare l’Europa. Ma come sempre accade, il ricatto ha finito per accendere i siciliani e scatenare uomini come Gianfranco Miccichè, presidente dell’Ars, che in versione Enrico Toti ha afferrato la sua stampella linguistica per scagliargliela contro: “Salvini non sei razzista, sei solo uno stronzo“.

   

Ecco, prima di stringere e salutare gli amici siciliani e prima ancora di riuscire a eleggere il suo primo sindaco saraceno (Anastasio Carrà a Motta Santa Anastasia in provincia di Catania), Salvini – ma chi ci crederebbe? – ha abbandonato uno studio televisivo per colpa (o merito) di un siciliano. Era il 2012, a “L’aria che tira”. Salvini era ancora un eurodeputato senza la barba alla mongola e non aveva ancora quel prezioso guardaroba da Strapaese, ma solo la semplice felpa con su scritto “Milano”. Fu l’ex assessore regionale alla Sanità, Massimo Russo, un altro magistrato, a sfidarlo sulle troppe inchieste che investivano la Lega al nord. Neppure Luigi Di Maio, neppure il M5s, hanno provocato Salvini quanto Russo. “Ma questo da che albero scende…”, disse in diretta Salvini. Alla parola mafia, allora accusa mossa dai magistrati nei confronti di esponenti delle giunte lombarde, Salvini lasciava lo studio neppure fosse Christian Raimo: “Perché io non sono né mafioso né razzista. Me ne vado!”.

      


Per l’anniversario dell’assassinio di Falcone, la sua presenza ha fatto riemergere l’antimafia che si è frantumata ulteriormente


       

Oggi il governo gli avrà insegnato l’arte della pazienza, ma Salvini da settimane ha dovuto allontanare quello stesso odoraccio che i suoi alleati hanno agitato contro i suoi uomini. Il sottosegretario ai Trasporti della Lega, anzi l’ex, Armando Siri, è indagato dalla procura di Roma e accusato di aver ricevuto del denaro da Paolo Arata per favorire l’imprenditore “eolico”, e siciliano, Vito Nicastri. Negli ultimi anni, nell’isola, il vento è cambiato e Salvini ha cominciato a fare campagna elettorale sull’Etna, ha perfino dormito a Mineo (per chiedere la chiusura del Cara) ed è salito a bordo dell’Ape Piaggio del suo ultimo candidato sindaco alle comunali di Palermo poi vinte da quello che oggi è uno dei suoi arcinemici, il sindaco Leoluca Orlando. Chi ricorda ormai quella formidabile operazione, si dice pensata da Davide Parenti, della “Iena” Ismaele La Vardera? Non si sa in che modo, ma ormai è chiaro che il faro dei sovranisti europei fu in pratica turlupinato da questo rosso malpelo. Non solo La Vardera ottenne il sostegno della Lega, ma riuscì anche a ragionare di alleanze con l’inafferrabile Giancarlo Giorgetti prima di trascinare Salvini tra i vicoli di Palermo e rivelare solo alla fine, dopo le elezioni, che si trattava nient’altro che di una falsa candidatura per girare un documentario sulla politica siciliana. Occupato a contrattare con Di Maio gli incarichi di governo, Salvini, quando lo ha scoperto, non ha potuto fare altro che riconoscere l’imbroglio e liquidarlo nient’altro che con queste parole: “Una buffonata. Ci penseranno i palermitani”. Eppure non era questo il primo selfie patacca che lo metteva nel sacco? E non era proprio un siciliano a organizzarlo? Preoccupato dalla doppiezza siciliana, ma anche dalle inchieste e dalle frequentazioni dei siciliani che progressivamente stanno maturando un sentimento sovranista, Salvini ha spedito in Sicilia, a coordinare il partito, uno dei suoi uomini più fidati, Stefano Candiani, originario di Varese, nominato supercommissario, un po’ come faceva il Pci che spediva i suoi quadri. A Candiani, in questi mesi, è stato affidato il compito di usare la ramazza, di selezionare la nuova classe dirigente leghista e di preparare la campagna dei Mille. E di sicuro, i nuovi leghisti sono più di mille ma più che unire l’Italia vogliono riprendersi qualche vecchio seggio.

       


La Iena La Vardera che ottenne il sostegno della Lega e di Salvini per rivelare solo dopo le elezioni che la sua era una falsa candidatura


    

Fuoriusciti, onorevoli decaduti, rifugiati. Senza saperlo, il ministro che nega l’asilo politico ai migranti lo ha rilasciato ai siciliani trasformisti. Uno dei primi a fare da nostromo a Salvini è stato Angelo Attaguile, un democristiano che ha più partiti alle spalle che anni (settantadue) e che ha puntato, in tempi non sospetti, sul cavallo che tutti ritenevano perdente. Malgrado Attaguile sia stato il Virgilio di Salvini in Sicilia, oggi il suo ruolo è dato da tutti in netto calo a favore di due rampanti sovranisti che si spartiscono la Lega in Sicilia. A Palermo, il riferimento è Igor Gelarda, che in verità è l’unico successo che Salvini può vantare su Di Maio (lo ha infatti strappato al M5s), mentre a Catania c’è Fabio Cantarella, che è finito nelle cronache nazionali per la sua loquacità. A una firma del Corriere della Sera, Cantarella ha rivelato che ha scelto di non candidarsi alle europee perché Matteo gli ha promesso che prestissimo lo candiderà in Parlamento. E poi dicono che i siciliani non vedono e non parlano. A pensarci è la stessa confessione che hanno fatto gli abitanti di Corleone, che il 25 aprile sono stati onorati dalla visita del ministro ma che hanno ammesso in tutta franchezza: “E’ vero che l’abbiamo invitato noi, ma la data l’ha scelta lui”. Salvini non sa infatti che le Sicilie sono più di cento e che il rischio è quello di rimanere impigliato in altre centomila. E qui si arriva infatti alle ultime elezioni comunali. In Sicilia, dove a ogni piazza Salvini ha fatto il pieno, non si è compiuta la sottomissione e anche lì dove si è compiuta non è altro che all’insegna dell’astuzia e dell’interesse. Nei comuni dell’isola, la Lega ha fatto fuochi d’artificio ma si è spenta al primo turno. A Mazara del Vallo, che è un innesto d’Africa in Sicilia, il candidato Giorgio Randazzo non ce l’ha fatta così come Francesco Spata a Gela, sostenuto da due oppositori interni di Forza Italia, e Oscar Aiello a Caltanissetta. La Sicilia non si è quindi consegnata a Salvini ma coltivando la dissimulazione onesta lo abbraccia e lo fischia, gli batte le mani quando arriva ma lo canzona quando parte. Non sono dunque le indagini dei pm siciliani la vera trappola siciliana in cui rischia di cadere, ma è forse un’altra, ben più pericolosa, che con il suo ormai solito bagaglio fatto di migranti, legittima difesa e padreterni, Salvini non fa altro che attirarsi. E’ la trappola che, in Sicilia, da sempre viene riservata a uomini di governo. E’ quella che secondo Vitaliano Brancati, alla fine, fa scricchiolare il potere che sembra eternità e che Domenico Vannantò ne La noia del 1937 rivelò a un amico in un telegramma. E’ la trappola della noia. Perché dopo il balcone sopraggiunge il verso definitivo, quello che i siciliani, più di tutti, conoscono. Lo sbadiglio.

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