Il coraggio dei ribelli è una truffa
“Se si rompe si va a votare”, dice Patuanelli. E nel M5s è panico. Ruocco e Morra invocano la crisi, ma stringono la poltrona. Paragone cuor di leone? “Ma chi c… lo vota?”
Roma. A metà pomeriggio, nel cortile di Palazzo Madama Stefano Patuanelli si ritrova a dire l’ovvio, e cioè che “se si rompe si va alle elezioni, altra via non c’è”. Suona così, la voce più governativista del M5s, quella del capogruppo pragmatico a cui anche Edoardo Rixi, sottosegretario leghista ai Trasporti, arriva a chiedere una mano per risolvere delle rogne sullo “sblocca-cantieri” che con Danilo Toninelli non riesce neppure ad affrontare. E suona all’unisono, per quanto possa sembrare strano, con quella del dissidente “anti-leghista” Matteo Mantero: “Certo che è folle”, risponde il senatore grillino. “Rompere e andare all’opposizione? E’ un modo ipocrita per fingere di volere preservare i valori del M5s, mentre l’unica cosa che si vuole preservare è la poltrona”.
Sì, perché tra i vaneggiamenti indotti dalla scoppola elettorale, tra gli oppositori interni di Luigi Di Maio comincia a circolare pure questo: sfilarsi dal governo ma andare all’opposizione. Lo propone Carla Ruocco sul Messaggero, lo rilancia Nicola Morra condividendo la prima pagina del Fatto. “Una stupidaggine”, la liquida il deputato grillino Riccardo Tucci. “Una roba da idioti totali”. A pochi passi da lui, in Transatlantico, Francesco Silvestri ostenta il suo scetticismo: “Andare all’opposizione non è una soluzione, la gente non ci vota certo per andare all’opposizione. Ma poi, all’opposizione di che, con 330 parlamentari che abbiamo? Che senso avrebbe?”. Ce lo trova Mantero, il senso. Lui che questo governo non avrebbe voluto neppure vederlo nascere, ora tuttavia sorride amaro, di fronte agli alambicchi dei suoi colleghi: “Dire che l’unica salvezza per noi sarebbe tornare all’opposizione significherebbe ammettere che non siamo capaci di governare. Semmai, si dovrebbe tornare a votare. Ma ovviamente chi sta al secondo mandato avrebbe un problema”, ammette Mantero.
E non a caso è il problema che avrebbero i fautori di questa bislacca strategia. Morra, il cruccio del “fine corsa”, come lo descrive lui, ce l’ha in fondo sin dal maggio scorso. Da quando, cioè, di fronte alle tribolazioni di Di Maio nel trovare un accordo col Pd aveva più che altro una paura: che si formasse un governo senza il M5s, cioè esattamente lo stesso che ora auspica. “Se si fa, vorrà dire che ci logoreranno, facendoci stare anche 12 o 18 mesi nel Palazzo, proprio per rendere problematica la ricandidatura di chi è al secondo mandato, che poi dunque scenderebbe a fine corsa”. Non è andata così. E lui, che come Mantero quest’alleanza con la Lega non l’ha mai davvero digerita, a differenza di Mantero – che votò perfino contro su Rousseau, quando si trattò di battezzare l’accrocco gialloverde – se l’è fatta andare bene quando ha dovuto poi brigare non poco per garantirsi il suo posto al sole. Compreso proporsi da pontiere tra i vertici del M5s e i senatori dissidenti, che poi tra loro si sfogavano: “Nicola è solo un opportunista che prova a circuirci per poi rivendercisi e ottenere qualcosa”, che nella fattispecie era la nomina a presidente della commissione Antimafia nel derby interno con Mario Giarrusso. Alla Ruocco è andata invece la presidenza della commissione Finanze, alla Camera. E tanto bastò per rappacificarla un po’ con Di Maio, con cui i rapporti erano turbolenti dai tempi del direttorio romano e delle dimissioni di Marcello Minenna da assessore al Bilancio della giunta Raggi. E sullo stesso Minenna – uno che già a fine agosto del 2016 decretava, inviando messaggi ai suoi conoscenti, “Di Maio è morto” – i rapporti si sono incrinati di nuovo: perché la Ruocco voleva proprio Minenna, suo stretto conoscente, alla presidenza della Consob, che invece poi è andata a Paolo Savona. Da lì, di nuovo guerra aperta a Di Maio e al governo: ma non alla legislatura. Perché anche per la Ruocco, se davvero si sciogliessero le Camere, scatterebbe poi il divieto di ricandidarsi.
Problema che invece non ha Gianluigi Paragone. Al quale infatti non pare vero di potere lanciare un avviso di sfratto a Di Maio, chiedendogli di rinunciare alla carica di capo politico (“Torniamo dall’io al noi”, dice, come un Roberto Speranza qualsiasi). Un modo, pure questo, per accelerare una crisi che forse Paragone vorrebbe che deflagrasse davvero fino in fondo, fino cioè a nuove elezioni dove proprio lui – insieme al suo nuovo sodale di corrente, Alessandro Di Battista – sarebbe uno dei pochissimi ricandidabili, tra quelli che godono di un minimo di notorietà. “Sono sempre stato poco senatoriale”, ride lui, sornione, quando gli si fa notare il verde fluo delle sue sneakers sul parquet del salone Garibaldi. E però per un seggio al Senato ha lavorato non poco, con Di Maio e con Davide Casaleggio, due anni fa. E a quello stesso Di Maio che oggi reputa incapace di gestire il Movimento ha chiesto di essere messo a capo della commissione d’inchiesta sulle Banche. “Sono loro i migliori alleati di quei leghisti che vogliono la crisi”, dicono, nel M5s, quelli che vorrebbero andare avanti, anche a costo di imporre un rimpasto, sacrificando il Toninelli di turno per fare spazio a qualcuna di quelle “supercompetenze” schierate negli uninominali del 4 marzo che sono state poi relegate al ruolo di schiacciabottoni. E d’altronde, se i conciliaboli tra parlamentari hanno un peso, allora c’è da scommettere che anche domani, nell’assemblea dei gruppi tanto attesa, nulla di troppo rilevante accadrà. “Anche perché – dicevano ieri, nel bar del Senato, i grillini Francesco Castiello e Fabrizio Ortis – alternative a Di Maio non ce ne stanno. Se si candidano Paragone o Elena Fattori, chi c... li vota?”. E intorno a loro, tutti annuivano.