Il collasso del cambiamento
La crescita non c’è, il paese è isolato, la sfiducia domina, l’Italia è un rischio sistemico e il governo ha messo il secondo debito europeo fuori controllo per nulla, peggiorando la vita dei cittadini e delle imprese. Il primo anno del populismo secondo l’ex ministro dell’Economia. Un saggio e un allarme
Un anno e due giorni fa il governo Lega-Cinque stelle si insediava con lo spread Btp-Bund a 238 punti dopo che tre giorni prima aveva superato i 300 per i contrasti sulla scelta dei ministri. Contrasti che a loro volta riguardavano i rapporti che l’esecutivo intendeva avere con l’Unione europea e con le regole della moneta comune. La diffidenza di tutti i nostri partner, di qualunque colore politico, e dei mercati era forte; ma il calo del differenziale dimostrò che non c’era un’ostilità pregiudiziale anti-italiana, che veniva concesso il beneficio di verificare da che parte sarebbero andati Giuseppe Conte, Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Dodici mesi dopo la Commissione europea uscente ha inviato a Roma una lettera in base all’articolo 126.3 del Trattato, cioè “per deficit eccessivo in base al debito”. E lo spread torna intorno ai 300 punti.
Se il debito non scende, un paese altamente indebitato come il nostro può essere messo sotto osservazione in qualsiasi momento
E’ importante capire le motivazioni di queste iniziative, l’eventuale procedura successiva, la conclusione. Si parte dal deficit ma appunto si parla soprattutto di debito: infatti si può avere molto deficit ma un debito relativamente basso o comunque sostenibile. Invece se il debito non mostra una dinamica virtuosa (cioè scende) un paese altamente indebitato come il nostro può essere messo sotto osservazione in qualsiasi momento. In altri termini: non è una “letterina” di routine, per dirla alla Salvini. Si tratta infatti di comunicare a un paese che si accende un riflettore sul debito per verificare se è sostenibile; se cioè quel paese è e sarà in grado di ripagarlo. Chiaramente non sono in ballo i parametri di Maastricht, e in particolare il 60 per cento di debito. Su questo lo scostamento esiste da anni, di ben oltre il doppio, dunque non si può parlare né di regole vecchie né di volontà persecutoria a tenere l’Italia sotto scacco.
Infatti durante la legislatura passata questa procedura è stata aperta e chiusa positivamente più volte, cioè non si è rilevata la necessità di sanzioni perché l’Italia è risultata essere in regola con il percorso di rientro del disavanzo, e perché sono state fatte valere le cosiddette circostanze eccezionali che giustificano un debito superiore alle soglie canoniche. Ma le circostante eccezionali quali sono? Innanzi tutto si guarda se un paese è impegnato in una politica di riforme strutturali, il che in passato è stato molto importante.
Per alcuni anni, fino al 2018, l’Italia è stata considerata un paese riformatore, dunque meritevole di credito
Nel bene o nel male l’Italia è stata considerata, per alcuni anni, un paese riformatore, dunque meritevole di credito, il che ha introdotto una giustificazione per l’alto debito. Questo processo è durato circa quattro anni, dal 2014, fin quasi al 2018, anche se le riforme sono state prima frenate poi bloccate dalla bocciatura nel referendum costituzionale del dicembre 2016. Le riforme comprendono quella del lavoro, cioè il Jobs Act; la Pubblica amministrazione, la scuola, il sistema di giustizia civile, le riforme bancarie, con la trasformazione in spa delle banche popolari, e la riforma del credito cooperativo. E le riforme istituzionali, che contano nel funzionamento dell’economia. Come fu fatto notare da un commentatore alla presentazione del libro “Il sentiero stretto”, l’Italia è stato un paese che ha provato ad attuare le riforme anche senza la pressione della crisi. La riforma Fornero fu attuata per fronteggiare una crisi drammatica; ma con il governo Renzi quell’urgenza si era attenuata. E i cambiamenti furono dettati dalla volontà politica.
E questa è la prima ragione che spiega le circostanze eccezionali che possono giustificare il debito elevato. La seconda ragione è che malgrado l’alto debito il paese rispetti comunque le regole di bilancio, cioè i vincoli di deficit strutturale: che non è il 3 per cento ma il saldo depurato dagli effetti del ciclo e dalle circostanze eccezionali Nel caso più benigno il deficit deve migliorare almeno dello 0,1 per cento. Un premio al fatto che si sta andando nella direzione giusta anche se ci si sta andando piano. Quello che importa è che ci sia un aggiustamento costante. La lettera inviata al governo qualche giorno fa parte dalla constatazione non solo che il debito non è diminuito ma che il disavanzo strutturale non è minimamente migliorato, anzi peggiora.
Non solo. Questo accade in un contesto europeo estremamente difficile per l’Italia. Paradossalmente più difficile rispetto a prima delle elezioni del 26 maggio. Spiego perché. Punto primo: da tempo in Europa a livello informale soprattutto e nel dibattito tra gli addetti ai lavori ma non solo, si sta facendo strada la convinzione che l’Italia debba ristrutturare il proprio debito, visto che finora non è riuscita a farlo scendere anche se fino a poco tempo fa era stabilizzato. La questione della ristrutturazione del nostro debito viene affrontata in modo più o meno sommesso, più o meno nascosto, ma si va sempre a parare lì, e ne parlano con parole diverse tanto i soggetti pubblici quanto quelli privati.
Italia e Ue, questione di fiducia. Se viene meno, si affermano le tentazioni di agire per vie automatiche, com’è in effetti la ristrutturazione del debito. Il paese è nella condizione di non avere voce in capitolo
Il governo è andato nella direzione opposta rispetto al dialogo e alla ricerca di fiducia reciproca, anche dopo le europee. Due le conseguenze negative. La prima, immediata, è l’aumento del rischio paese che si vede sullo spread. La seconda, forse ancora più grave, è che l’Italia è isolata
Esempio. Nell’ultimo paio d’anni è stato portato avanti da economisti francesi e tedeschi un lavoro sulla riforma dell’euro. Una delle proposte consiste nell’istituire meccanismi di ristrutturazione del debito semiautomatici nell’ipotesi che un paese debba chiedere l’aiuto del cosiddetto fondo salva-stati, lo European stability mechanism o Esm. Questa idea è condivisa da molti paesi della zona euro. E dietro al dibattito tra riduzione del rischio e condivisione del rischio c’è esattamente questo. Che cosa vuol dire in concreto? La condivisione del rischio significa che ci sono istituzione europee che si fanno carico del funzionamento delle regole nel loro complesso, ed è ciò che chiede da tempo l’Italia. L’assicurazione europea dei depositi bancari, finora mancante alla unione bancaria, è una tipica forma di condivisione del rischio: se i depositi italiani sono sotto pressione, risorse europee sono ponte a intervenire. Si può immaginare che cosa ne pensano i tedeschi. I quali come rispondono all’obiezione di un’unione bancaria tuttora incompiuta? Che si può fare, a patto che i paesi ad alto rischio riducano, appunto, il rischio che rappresentano.
E chi sono i paesi ad alto rischio? L’Italia e qualche altro. Non molti altri: recentemente c’è stato uno scandalo bancario in Estonia. Ma bisogna tener presente che le fonti di rischio sono sostanzialmente due: la finanza pubblica, e qui l’Italia, a parte la Grecia, è tornata a svettare; e i bilanci bancari, cioè i crediti non esigibili. Su questo secondo terreno il sistema bancario italiano ha fatto molti progressi avendo anche beneficiato di due fattori: l’uscita dalla recessione, che migliora i bilanci delle banche, e il ruolo di meccanismi introdotti nella passata legislatura per facilitare lo smobilizzo delle sofferenze. Si tratta delle Gacs, le garanzie concesse dallo stato per cartolarizzare gli Npl, appunto i non performing loans, i crediti non esigibili. La Ue ha concesso l’autorizzazione al prolungamento della garanzie italiane, che però diventano più care per le casse pubbliche, e per le banche, a causa del peggiorare dello spread e del rischio paese: più che raddoppiati rispetto al 2016 quando vennero autorizzate le prima garanzie.
Insomma, prima delle elezioni del 2018 il dibattito in sede europea verteva intorno a come trattare un’Italia ad alto rischio nel bilanciamento tra condivisione e riduzione del rischio-paese. L’Italia ha sempre risposto che le due cose devono andare avanti assieme, l’una presupposto dell’altra, con i paesi virtuosi chiamati ad accettare gli oneri di questa mutualizzazione. Ma questa visione è stata rifiutata da altri paesi che insistono su una riduzione del rischio come precondizione per proseguire nella condivisione del rischio.
Non è una questione di burocrazie, né di segreti circoli, come si usa ripetere oggi. Perché questo problema ne nasconde un altro, più importante, che si chiama mancanza di fiducia. Schematicamente, io non mi fido di te poiché hai una bassa reputazione, e tu non ti fidi di me perché pensi che io sia prevenuto. Ma senza fiducia reciproca non c’è nessuna possibilità di costruire assieme alcunché. E’ un handicap che ha accompagnato l’Italia per tutti gli ultimi anni; tuttavia erano stati fatti passi avanti che ci avevano portato dei benefici. La flessibilità che ci era stata concessa storcendo la bocca era appunto basata su una fiducia faticosamente costruita. E’ giusto sapere che cosa determina su questa fiducia: e cioè tutto ciò che ha a che fare con i buoni rapporti tra governi, visto che alla fine più che le istituzioni sono i governi a decidere. Ma i governi sono fatti di persone, dunque anche i rapporti personali tra ministri sono importanti. Poi ci si fida di un governo quando si vede, appunto, che quel governo è riformatore. Se invece il rapporto di fiducia reciproca viene meno, si affermano le le tentazioni di agire per vie automatiche. Come è in effetti la ristrutturazione del debito.
E questa può avvenire attraverso molte gradazioni. C’è il reprofiling, cioè la concessione di più tempo per ripagare, che corrisponde alla riduzione dello stock. All’altro estremo c’è la dichiarazione di insolvenza del debito, come fu per l’Argentina nel 2001. Uno dei grandi punti di disaccordo europeo sulla Grecia è stato come ristrutturarne il debito. Il Fondo monetario internazionale voleva la ristrutturazione, che poi in parte è stata concessa; la Germania si opponeva perché parte del debito greco era in mano alle sue banche. Ma allo stesso tempo Berlino, ma non solo Berlino, voleva che la Grecia mettesse i conti in ordine, imponendo le sue condizioni.
Ma nel momento in cui i mercati vedono che ci si muove verso la ristrutturazione tenderanno a uscire dai titoli pubblici di un paese prima di restarvi intrappolati: cioè venderanno. E’ bene sapere che nei confronti dell’Italia molti mercati, in questo ultimo anno, lo hanno già fatto. Ed è la spiacevole novità, per usare un eufemismo, di questi 12 mesi. Poiché il governo è andato nella direzione opposta rispetto al dialogo e alla ricerca di fiducia reciproca, e continua a farlo anche dopo le europee, ne seguono due conseguenze negative. La prima, immediata, è l’aumento del rischio paese che si vede sullo spread. La seconda conseguenza, forse ancora più grave, è che l’Italia è isolata in un momento nel quale l’Europa sta profondamente cambiando. E poiché il nuovo Parlamento europeo è con varie sfumature a maggioranza pro-Ue, l’Europa sarà sì presto rinnovata, ma in un modo nel quale gli interessi dell’Italia saranno tenuti in minore considerazione.
Non solo nella nuova maggioranza di Strasburgo entreranno partiti e governi più rigidi sulle regole di bilancio, ma come sappiamo gli stessi paesi sovranisti sui quali conta la Lega sono dichiaratamente ostili al lassismo fiscale, oltre che alla ridistribuzione degli immigrati
Non solo nella nuova maggioranza di Strasburgo, e poi negli accordi che si consolideranno a livello di governi, entreranno partiti e governi più rigidi sulle regole di bilancio, ma come sappiamo gli stessi paesi sovranisti sui quali conta la Lega sono dichiaratamente ostili al lassismo fiscale, oltre che alla ridistribuzione degli immigrati. Ne risulta così che l’Italia, che è percepita come paese sovranista, è doppiamente isolata nella costruzione della prossima Europa. In realtà non dovremmo più chiamarlo sovranismo: chiamiamolo nazionalismo, termine che evoca conflitto e dunque isolamento.
Tutto ciò non porta al rischio che l’Italia venga fatta uscire dall’Unione europea, a meno che non si metta nelle condizioni perché questo sia inevitabile. La Brexit oltretutto sta dimostrando come sia molto difficile tanto uscire dalla Ue quanto condurre un paese all’uscita. Il pericolo non è quello; non è ancora quello. E’ piuttosto il fatto che in un momento di grandi cambiamenti per l’agenda europea, l’Italia è nella seria condizione di non avere voce in capitolo. Per l’Europa ha suonato un wake up call, una sveglia: i partiti nazionalisti – in Francia con Marine Le Pen, in Italia con Salvini – hanno fatto passi avanti ma non sufficienti ad avvicinarsi alla maggioranza. Questo porta a due conseguenze: se la situazione non cambia, e il disagio aumenta, alla prossima elezione europea ci sarà più sovranismo e più nazionalismo. Ma nell’immediato, seconda conseguenza, a livello intergovernativo l’affermarsi di maggioranze sovraniste si farà sentire. Nella passata legislatura di Strasburgo ci si è resi conto di quanto fosse importante la famiglia politica di appartenenza: il dialogo chiave era tra popolari e socialisti, e di solito si riusciva a raggiungere un accordo accettabile. Adesso che quella maggioranza non c’è più si tratta di capire come funzioneranno le intese con i verdi ed i liberali, non solo nel Parlamento ma nei rapporti tra governi.
L’Italia, lo ripetiamo, si trova oggi fuori da questi meccanismi. La possibilità di dialogo ovviamente esiste sempre. Ma poiché notoriamente ognuno è nazionalista tra le proprie mura, è illusorio pensare che essendo Salvini e Viktor Orbán entrambi sovranisti se il ministro delle Finanze italiano chiede a quello ungherese di dargli una mano sul deficit quello gliela dia. Ne riceverà in cambio una richiesta ancora più dura a mettere i conti a posto. E questo accentuerà l’isolamento, la scarsa fiducia reciproca, la difficoltà a costruire alleanze e influenzare scelte importanti, a cominciare da quelle sul bilancio dell’Unione, sulla riforma del patto di stabilità, sulle politiche di investimento.
L’indice dei nostri sovranisti puntato a torto contro la Francia. La scomparsa della crescita dall’Italia: il governo si è mangiato tutti gli spazi di bilancio per dare priorità a reddito di cittadinanza e quota 100. La fiducia di imprese e famiglie in caduta. I cantieri bloccati. La lettera di Bruxelles, il capolinea
Per esempio: mi sorprenderei assai se l’Italia potesse ottenere un posto di commissario agli Affari economici, quello che è oggi Pierre Moscovici. Nella Commissione uscente l’Ungheria ha il commissario allo Sport e alla gioventù. La Polonia, altro paese del gruppo di Visegrad, ne ha uno più importante, all’Industria. Forse l’Ungheria vorrà salire di livello, difficilmente la Polonia cederà il suo. La Lega punta alla Concorrenza o all’Agricoltura: sarebbe un grande successo il primo, il secondo commissario è dell’Irlanda, un paese che si è confermato saldamente filoeuropeo e che è uscito dalla crisi con uno spettacolare risanamento. La Spagna socialista sta dialogando con Emmanuel Macron: noi, che perderemo le presidenza della Bce, dell’Europarlamento e la vicepresidenza della Commissione, con chi abbiamo avviato i contatti? E’ un altro dei risultati ottenuti quest’anno.
Di Maio si è vantato: “Siamo il primo paese del G7 a stringere un accordo globale con Pechino”. Io mi sarei chiesto come mai gli altri non l’hanno fatto. Ciò che abbiamo sottoscritto è un memorandum nel quale rispetto al peso e al ruolo, anche politico, della Cina abbiamo una consistenza irrilevante
L’isolamento dell’Italia in Europa ci porta al problema del suo isolamento sui più rilevanti dossier mondiali. Per esempio nella non ratifica del Ceta, l’accordo commerciale con il Canada. E ancora più nella ratifica del memorandum con la Cina, sul quale Di Maio si è vantato così: “Siamo il primo paese del G7 a stringere un accordo globale con Pechino”. Io mi sarei chiesto come mai gli altri non l’hanno fatto. Ciò che abbiamo sottoscritto è in realtà un memorandum politico, nel quale rispetto al peso e al ruolo, anche politico, della Cina abbiamo una consistenza irrilevante. La vera novità è che l’Italia in mezzo a giganti come Usa, Cina e Russia ha deciso di abbandonare il multilateralismo che ci ha garantito per decenni, decidendo di muoversi in una logica bilaterale, quindi con una forza contrattuale infinitamente inferiore. Ben diverso sarebbe stato concorrere a un negoziato complessivo Ue-Cina. E altra cosa sono i contratti tra singole aziende e controparti cinesi, come quello francese per gli Airbus, che non prevede concessioni incondizionate. Se poi come si è vociferato le consultazioni previste tra Italia e Cina a livello di ministri finanziari sottintendessero la tentazione italiana di vendere ai cinesi tranche di titoli pubblici, questo significherebbe metterci in condizioni di grave sudditanza a tutti i livelli, a cominciare da quello politico. Altro che sovranità. Non siamo gli Stati Uniti, che negli anni Novanta negoziarono con la Cina l’acquisto di T-Bond, e ciò nonostante oggi fanno la guerra commerciale a Pechino dopo che allora i cinesi ci rimisero molti soldi. Così anche in questo campo è lecito chiedersi: qual è nel bilancio di un anno il peso internazionale dell’Italia? Non mi sembra aumentato.
Il che ci riporta alla nostra posizione in Europa. Ogni volta che ci viene contestato lo sforamento del deficit i nostri sovranisti puntano l’indice contro la Francia, che è stata a lungo sopra il 3 per cento di disavanzo, assieme ad altri paesi, e per questo è nel cosiddetto braccio correttivo dell’Unione europea, nel senso che non deve solo rientrare nei parametri ma avviare e implementare riforme. Mentre l’Italia era uscita dal braccio correttivo per entrare in quello preventivo, che richiede il mantenimento di un deficit sotto il tre per cento. Ma perché la Francia, che comunque è ora sotto il tre, ha potuto superare il tetto di deficit e l’Italia no? Semplice: perché il suo debito pubblico in rapporto al pil è poco più di due terzi di quello italiano, e come quello degli altri paesi della zona euro sta scendendo, non aumentando. Poi basta guardare al rischio attribuito dai mercati: il rating di Moody’s è di AA2 per la Francia, di Baa3 per l’Italia; quello di Standard & Poor’s rispettivamente di doppia A e di tripla B. Questo impatta sullo spread: quello francese è 40, quello italiano 290. Significa che la Francia non avrà problemi nel collocare i suoi titoli pubblici ma soprattutto che il costo del debito sarà molto basso, lasciando spazi di bilancio per altri impieghi. Si può dire lo stesso dell’Italia?
Non dimenticherò mai il G20 di Cannes del novembre 2011, dove rappresentavo l’Ocse. Quando si sparse la voce “vogliono mandarci la troika”. E in effetti Christine Lagarde, appena ascesa alla guida del Fondo monetario, era pronta all’intervento, che si concretizzò nell’arrivo a Roma per pochi giorni dei loro tecnici finché non venne chiamato a Palazzo Chigi Mario Monti. Ma non è solo una questione di debito e della percezione che se ne ha sui mercati. La Francia è tra i pochi paesi europei in crescita demografica grazie a una politica fiscale che non prevede flat tax né sconti miracolosi, ma che guarda costantemente alle famiglie. A parità di condizioni cresce più dell’Italia pur avendo un’industria meno forte e vivace della nostra. Il che se depone a favore del nostro settore privato fa anche capire in quali difficoltà esso si muova da noi piuttosto che oltre le Alpi.
Eppure questi due paesi, Italia e Francia, avevano chiuso il 2017 quasi alla pari sulla crescita, noi all’1,7 per cento e loro al due; e fino a metà del 2018 erano praticamente appaiate con un pil su base annua all’1,5. Poi l’Italia è letteralmente crollata: come mai? Certo, è peggiorata la congiuntura internazionale, a partire dalla Germania della quale siamo il maggior partner e fornitore. Ma ancora più è caduta la fiducia, soprattutto delle imprese ma anche delle famiglie, e solo a maggio, e prima delle europee, si sono visti lievi segnali di ripresa. Quanto alle famiglie, se ad aprile 2018, subito dopo le elezioni, i pessimisti superavano gli ottimisti di 20 punti, a dicembre erano già triplicati. Ma ancora più si sono fermate le imprese: si è visto un fenomeno tipico dei paesi in via di sviluppo, il “sudden stop”, l’arresto improvviso. Il che ha significato interrompere il rinnovo di impianti, non investire più, non impiegare la liquidità in questo o quel fondo. Ma noi non siamo un paese in via di sviluppo, siamo la seconda manifattura europea, la settima del mondo.
Quando si parla di investimenti pubblici è bene tenere in mente che si tratta dello strumento più potente per tenere vivace un’economia che va, e per riavviare un’economia che non va. Ma i due partiti della maggioranza hanno in molti casi litigato addirittura sulle singole infrastrutture, non solo sulla Tav
E’ il dato fondamentale di questo anno di governo: si è introdotta nel paese la sfiducia; il che ha un costo economico molto elevato. Di due tipi: un costo immediato per la caduta della domanda e uno di medio termine perché se non ci sono investimenti oggi calerà la capacità produttiva domani. Quindi l’economia si indebolisce anche strutturalmente, non solo in maniera contingente. Ciò ha determinato il problema dei problemi: la scomparsa della crescita dall’Italia. Al di là della questione recessione o stagnazione, il pil si muove comunque intorno allo zero; per consolarci abbiamo tirato in ballo la Germania, dove il rallentamento è dovuto principalmente all’industria automobilistica, ma dove anche il pil si sta riprendendo sia su base trimestrale sia annua, a conferma che lì si tratta di fisiologia, mentre in Italia è patologia.
Infatti l’Italia, non solo secondo i centri studi internazionali, prevede di crescere nei prossimi anni sotto l’uno per cento. Le cause di questa inversione rispetto alle tendenze degli ultimi anni sono la mancanza di fiducia, lo stop dell’economia, le riforme strutturali non completate, anzi in qualche caso smantellate. E poi c’è un’altra cosa egualmente importante: il governo si è mangiato tutti gli spazi di bilancio per dare priorità alle due misure bandiera, il reddito di cittadinanza e quota 100. Le quali hanno sulla crescita un impatto molto limitato, e benché il reddito di cittadinanza si stia rivelando una misura assistenziale e non uno strumento di ricollocamento per il lavoro, gli effetti peggiori vengono da quota 100. Che indebolisce la sostenibilità del sistema previdenziale, a danno del bilancio pubblico e di chi andrà in pensione in futuro; ma anche, quota 100, che non incide minimamente sulla crescita (anzi il contrario secondo l’Ocse): il rimpiazzo promesso di chi va in pensione con uno, due, tre giovani non si vede, e comunque nella migliore delle ipotesi avviene alla pari, senza effetti netti sul lavoro e sull’occupazione.
L’altro grande capitolo sono gli investimenti pubblici. Il governo, e in particolare il ministro dell’Economia, avevano detto all’inizio del mandato una cosa altamente condivisibile: faremo di tutto per accelerare questi investimenti. Sacrosanto. Ma i due partiti della maggioranza hanno in molti casi litigato addirittura sulle singole infrastrutture, non solo sulla Tav. E anziché semplificare le procedure, che erano in effetti farraginose, hanno introdotto nuovi strumenti, tipo la cabina di regia, che indicano solo come il marcamento tra i due partner e relativi ministri abbia prevalso sull’urgenza di fare, di dare risposte agli imprenditori e al paese che di opere pubbliche ha bisogno. In definitiva il contrario di ciò che possiamo definire un semplice buon senso. Quando si parla di investimenti pubblici è bene tenere in mente che si tratta dello strumento più potente per tenere vivace un’economia che va, e per riavviare un’economia che non va. Nel caso dell’Italia si tratterebbe di investimenti in gran parte già finanziati, cioè con risorse già a disposizione: attinte da un grande fondo infrastrutturale con oltre 100 miliardi che ogni anno è stato in parte mobilizzato. Cioè nel nostro quadriennio per due volte sono state mobilizzati i fondi in opere pubbliche, nella misura di due decimali di pil. Non tantissimo ma neppure zero. Il nuovo governo ha di fatto bloccato i cantieri, in attesa dell’analisi costi-benefici oppure perché quello che piaceva alla Lega non piaceva ai Cinque stelle.
In definitiva: la crescita non c’è, non c’è più. Ma non ci sono neppure gli strumenti di bilancio per sostenere la crescita. Ci troviamo al paradosso di un deficit che viaggia verso il 2,4 per cento, se andrà bene, la famosa cifra della sera sul balcone di Di Maio e i suoi; ma senza che questo si traduca in beneficio per rilanciare un paese che non cresce più. In fondo il senso di questo anno di governo sta proprio in questo: l’aver festeggiato sulla pubblica piazza lo sfondamento del disavanzo a danno delle finanze pubbliche e quindi dei contribuenti, ma anche della reputazione internazionale dell’Italia, ed essere ora al capolinea di una lettera di Bruxelles il cui significato vero non sta nella lesione della sovranità italiana da parte dell’Europa. Il significato vero è che l’Europa – oggi attraverso una Commissione in scadenza, domani attraverso una nuova Commissione – ci dice: avete mandato fuori controllo il secondo debito europeo. E lo avete anche fatto per nulla, peggiorando la vita dei vostri concittadini e delle vostre imprese.