Matteo Salvini (foto LaPresse)

Accettare la realtà di un governo Salvini

Claudio Cerasa

Salvini non è un male minore rispetto a Di Maio, ma un governo Salvini può essere un male minore rispetto al modello Salvini-Di Maio? L’agonia del governo, il film del prossimo. Il trucismo è un incubo, ma un’exit strategy c’è: vale la pena parlarne

Matteo Salvini non è un male minore rispetto a Luigi Di Maio, e questo lo sappiamo, ma un governo Salvini può essere un male minore rispetto a un governo Salvini-Di Maio? Per non perderci nel chiacchiericcio quotidiano relativo al futuro del governo (che non c’è più), al destino della legislatura (che non funziona più), al rapporto tra Di Maio e Salvini (che ieri si sono sentiti al telefono, wow, trovando persino un accordo sullo sblocca cantieri, doppio wow), agli ultimatum di Giuseppe Conte (a due giorni dall’ultimatum, non sappiamo ancora quando scade l’ultimatum), alle intenzioni della Lega (ieri il ministro Gianmarco Centinaio, poco prima di entrare in un talk-show di La7, ha detto a chi scrive di scommettere sul non voto, poi due minuti dopo, in diretta, ha scommesso sul voto a ottobre), agli scenari relativi alla crisi di governo (se si vuole votare a settembre, e non ad agosto, il governo deve restare in vita per qualche settimana).

 

Ecco: per non perderci in tutto questo, per non essere travolti dal retroscenismo, più che osservare cosa c’è dietro la scena è forse utile concentrarsi su cosa c’è di fronte a noi, in questo momento, sulla scena principale della politica. E di fronte a noi, in mezzo a mille incognite, in mezzo a mille contraddizioni, in mezzo a mille non detti, c’è un tema che non può non essere affrontato: la prospettiva di avere, per una stagione non necessariamente breve, un paese guidato da Matteo Salvini. Non sappiamo quando succederà, non sappiamo quando la Lega deciderà di togliere l’ossigeno a un governo finito, ma sappiamo che se il Truce dovesse decidere di andare a votare avrebbe oggi, di fronte a sé, uno scenario da sogno: un’opposizione ancora debole, un alleato di governo prossimo al collasso, un’alternativa di governo inesistente in Parlamento, un presidente della Repubblica disposto a sciogliere le Camere, un insieme di alleati di centrodestra non così forti da rendere impossibile l’idea per la Lega di andare a votare da soli.

  

  

La possibilità che vi sia presto un governo Salvini è una possibilità concreta (aiuto) e di fronte a questa possibilità occorre mettere insieme alcuni elementi per capire quali sono le ragioni (se ci sono) per cui un governo Salvini potrebbe essere un male minore rispetto a un governo Salvini-Di Maio. Sul Foglio di oggi, il professor Guido Tabellini, nell’articolo qui a fianco, scrive – dopo aver offerto il suo giudizio negativo sul governo – che “per quanto denso di incognite, lo scenario di elezioni anticipate con conseguente assunzione di responsabilità da parte della Lega è comunque meno negativo rispetto al protrarsi di una situazione di crisi politica imminente, in cui i partiti di governo pensano solo al prossimo mese, cercando di posizionarsi al meglio nel caso di nuove elezioni”.

  

Da un certo punto di vista, Tabellini ha ragione ma l’assunzione di responsabilità da parte della Lega è una variabile che dipende da diversi fattori che meritano di essere messi in fila. Nell’anno di governo che è appena trascorso, la grande differenza tra il Movimento cinque stelle e la Lega è che i primi hanno dimostrato di essere sostanzialmente incapaci – incapaci di realizzare buona parte delle proprie promesse, incapaci di inquadrare le priorità economiche dell’Italia, incapaci di guidare la settima potenza industriale del mondo – mentre i secondi hanno dimostrato di essere sostanzialmente capaci di tutto. Capaci di diventare per l’economia un pericolo maggiore rispetto al grillismo (l’Italexit passa più dalla linea della Lega che da quella del M5s), ma capaci anche di poter fare quello che buona parte del paese si augura che possa capitare qualora Salvini dovesse arrivare al governo: diluire il modello truce del salvinismo di lotta, buono più per prendere voti che per governare, con il modello più pacato del leghismo di governo delle Regioni.

  

L’auspicio di temperare un leader che ha fatto del suo non essere temperato il suo principale tratto distintivo è una scommessa più simile a una roulette russa che a un semplice giro di giostra. Eppure allo stato attuale, in assenza di un’alternativa di governo capace di essere numericamente credibile, la speranza che una volta arrivato a guidare l’Italia Matteo Salvini usi il Cuore immacolato di Maria più per governare che per scassare è l’unica che può farci pensare che l’opzione del governo Salvini possa essere un male minore rispetto a un governo come quello attuale – un governo in cui la logica del compromesso è stata sostituita con la logica dello scambio, in cui la somma dei populismi ha creato una moltiplicazione degli estremismi, in cui il principio dell’irresponsabilità ha prevalso su quello della responsabilità.

  

Per farlo, naturalmente, Salvini dovrebbe dimostrare di essere diverso rispetto a quello che è. Dovrebbe dimostrare di avere voglia di recuperare il rapporto con il vecchio centrodestra, non tanto per vincere qualche collegio ma per non perdere per strada il partito del Pil, che è poi il vero blocco sociale della Lega. Dovrebbe trasformare i governatori delle Regioni, presenti e passati, non in avversari da contenere ma in risorse da sfruttare. Dovrebbe insomma fare il contrario di quello che ha fatto finora e dimostrare di voler usare il potere non per fare quello che in molti temono (uscire dall’Europa violando tutte le regole possibili e immaginabili) ma per fare quello che persino i suoi avversari sperano (sfidare l’Europa provando a cambiare le regole e dando al paese la possibilità di riattivare un bipolarismo non tra populismo ma tra centrodestra e centrosinistra).

  

Diceva Karl Popper, a metà del Novecento, che “tutto quello che il mio ottimismo in relazione al presente può dare per il futuro è speranza”. Con Salvini, un domani, varrà lo stesso. Con la consapevolezza, come ricorda sempre oggi il professor Tabellini, che la storia dei partiti populisti, in America latina, insegna che le svolte moderate, per i partiti di matrice peronista, purtroppo sono improbabili. Tifare no. Sperare sì.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.