Un poster con Luigi Di Maio e Matteo Salvini (Foto LaPresse)

Cosa è disposto a cedere Di Maio pur di non perdere il governo

Valerio Valentini

Tav, autonomia e abbassamento delle tasse. Il leader grillino in ginocchio da Salvini dopo un mese di insulti 

Roma. Nel Transatlantico semideserto, la notizia del fatidico incontro si diffonde come il suono di una campana di cristallo. “Certi amori non finiscono. E questo è l’unico amore possibile”, esulta il grillino Riccardo Olgiati, sotto lo sguardo sornione ma tutto sommato compiacente del ministro Riccardo Fraccaro. S’erano persi e ora si ritrovano, i due vicepremier. Si ritrovano faccia a faccia, da soli, per la prima volta dopo mesi di sgarbi reciproci, a rinnovare un accordo che sembrava ormai logoro, e invece si riscopre d’incanto così saldo che alla fine Matteo Salvini e Luigi Di Maio faranno addirittura una nota congiunta. Com’è tipico delle coppie affiatate, dei politici che ci tengono a dare l’idea di un’intesa reale.

 

Sono da poco passate le quattro del pomeriggio quando il capo grillino varca la soglia dell’ufficio del collega leghista, con l’aria di chi va a Canossa, a scusarsi per un mese e mezzo di insulti e di ingiurie. Un po’ per disperazione, un po’ per paura: sa bene, Di Maio, che per prolungare la sua vita di uomo di governo deve aggrapparsi al polpaccio dell’alleato che in poco più di un anno lo ha annichilato, e sperare che quello non scrolli troppo forte la gamba. “Loro ormai sono accondiscendenti su tutto”, se la ridono nel frattempo, alla buvette di Montecitorio, Andrea Crippa e Luca Toccalini, i giovani più scalpitanti della truppa salviniana. “Manca poco – dicono – che s’appunteranno la spilla di Alberto da Giussano sulla giacca”. E forse non sarà così icastica, la resa: ma la proscinesi di Di Maio preannuncia il cedimento sulla Tav (“Ormai neppure più i No Tav, ci votano, in Valsusa”), sull’autonomia (“Corretto il passaggio sul reclutamento dei prof, perché opporsi?”), sul nome meglio definito impegno ad abbassare le tasse, definito da entrambi i vicepremier “prioritario per il rilancio del paese”. Tre giorni fa, il sottosegretario grillino Mattia Fantinati, è arrivato a cospargersi il capo di cenere e a riconoscere perfino che sì, anche sulla Pedemontana “ci siamo sbagliati, bisogna farla”.

 

E allora anche a livello umano, tra i due gruppi che per settimane si erano guardati in cagnesco, sembra tornare l’armonia. Così, almeno, racconta chi ha visto parlare fitto fitto, nell’aeroporto di Fiumicino, il pontiere grillino Stefano Buffagni e il suo collega di governo Guido Guidesi, uno degli uomini più vicini a Giancarlo Giorgetti. Che si affaccia appena, nel cortile di Palazzo Chigi, al fianco di Salvini, al termine dell’incontro del rinato amore. Non è questa la soluzione che auspicava, Giorgetti: ma è quella a cui, per ora, potrebbe doversi rassegnare. “A noi conviene restare coi grillini, per ora”, spiega Toccalini. “Così possiamo fare maggioranza e opposizione a seconda dei casi”. Ma certo, le correzioni bisognerà che arrivino. “Almeno due ministeri”, sentenzia, categorico, Crippa. “Ci servono due ministeri per ottenere la maggioranza in Cdm”.

 

Giuseppe Conte non avrà nulla da ridire. Anche lui, in fondo, auspica in ogni modo la continuità: più per ambizione, che per convinzione sincera. Perché se è vero, come ama ripetere Giovanni Tria, che “le dimissioni si danno, non si annunciano”, allora il premier, paventandole con tanta apparente spavalderia, ha in verità provato a dissimulare la paura di dovere rinunciare all’ebbrezza effimera del potere. Chiedeva ai vice da cui dipende un rinnovo del mandato: e se era scontato quello di Di Maio, assai meno lo era quello di Salvini.

 

Il quale, tuttavia, ha rinunciato – per ora – all’azzardo estremo. Un po’ perché “creare la crisi non paga mai”, un po’ perché, di certo, il ministro dell’Interno non ha alcuna intenzione di intestarsi una trattativa complicata con la diplomazia europea, e preferisce mandare l’“avvocato del popolo” a fare la parte del Vittorio Emanuele Orlando lacrimoso. E dunque s’è votato pure il leader del Carroccio, al credo della continuità gialloverde. Ed è così che, per senso di responsabilità, anche Sergio Mattarella pare essersi convinto sulla necessità di prolungare la vita di questo agonizzante governo grilloleghista: che non è un granché, certo, per andare a contrattare a Bruxelles, ma è pur sempre meglio di un esecutivo dimissionario, o totalmente allo sbando. Di questi tempi, non si può essere troppo pretenziosi.

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