Sono stati loro
Promesse mancate, bugie, trappole, errori e assurdità della pazza maggioranza gialloverde. Com’è cambiata l’Italia in dodici mesi di governo populista. Come sono cambiate la politica e l’economia. Com’è cambiato, nei selfie e alla tv, il racconto del paese. Girotondo fogliante
Un anno e qualche giorno fa giurava al Quirinale il governo Conte, che il paese si è subito adattato a riconoscere come il governo Di Maio-Salvini, primo sedicente governo del cambiamento. Ma come è cambiata in questi dodici mesi l’Italia? Com’è cambiata l’economia – con le impennate dello spread, il debito pubblico, la stagnazione, il problema del lavoro? Com’è cambiata la politica e il suo racconto – nei selfie ministeriali, sui giornali, nei talk-show? Com’è cambiata la nostra vita – nelle esibizioni o nelle liti sui social e alla tv? Partiamo dal bilancio di un anno delle promesse mancate, degli impegni impossibili, delle bugie, degli errori e delle incompetenze del governo populista per capire in fondo, con questo girotondo fogliante, come siamo cambiati noi.
Le vecchie zie al governo
Ci salveranno le vecchie zie? Se lo chiedeva Leo Longanesi, esplorando l’antico modello che stava cadendo in disuso (nel 1953, tenetelo a mente). Niente affatto, le vecchie zie non ci salveranno. Vanno intese come categoria dello spirito, naturalmente. Applicabile anche ai maschi lontani dalla vecchiaia, con cui non abbiamo parentele. Le vecchie zie non salveranno nessuno: sono al governo da un anno, e l’Italia non sta andando benissimo.
La vecchia zia chiede sempre “hai mangiato?”. Chi sta al governo anticipa la domanda, postando foto di pastasciutte e fiaschi di vino, polente, colazioni mattutine da camionista. L’ordine, per i cioccolatini italiani, è restare tricolori, sbarrando la strada allo straniero globalizzato. La vecchia zia ha un debole per le divise: polizia, carabinieri, pompieri, ausiliari della sosta, fino alle società sportive (qualsiasi felpa con la scritta fa figura con la zia che è sempre occhialuta). La vecchia zia vorrebbe tanto vedere il nipote fidanzato, e smania per conoscere la fortunata, perlomeno in fotografia. La vecchia zia ama i tavolini del salotto messi di sbieco. Per piacerle di più i politici si fanno i selfie di storto, in diagonale (non c’è altra spiegazione a questo vezzo). La vecchia zia bacia i santini, e vorrebbe tanto che tutti lo facessimo.
La vecchia zia odia i forestieri e la modernità. Pensa che appena esci dai sacri confini – ma perché, poi? – i rischi siano altissimi. La vecchia zia pensa di essere circondata da azzeccagarbugli: in testa a tutti l’Europa che vuole fregarci con i numeretti, le clausole scritte in piccolo sui contratti. La vecchia zia pensa che una bella borsettata, e l’urlo “screanzato!”, serve dove altri mezzi falliscono. Per esempio a far sì che le fabbriche non licenzino gli operai: l’hanno promesso, giurin giuretta, non si comporta così una giovane marmotta.
Le vecchie zie odiano la modernità, i treni che vanno veloci, le compagnie aeree in attivo. Le vecchie zie sono arci-italiane, come questo governo. E se c’è un buco nel bilancio, sono pronte a mascherarlo con un centrino all’uncinetto.
Mariarosa Mancuso
Due forze che hanno obbiettivi diversi e a volte incompatibili
Questo governo ha una caratteristica che lo distingue nettamente dai predecessori. E’ un governo totus politicus. Entrambi i partiti che governano sono nuovi. La religione del nuovo celebra il mito del cambiamento sull’altare dell’assolutezza del politico. Entrambi i partiti demonizzano il passato, diffidano degli apparati, trascurano la distinzione delle responsabilità, considerano la legittimazione politica come unica forma di legittimazione e conseguentemente invitano chi esprime opinioni dissenzienti a farsi eleggere. In un governo totus politicus è inevitabile che abbia la meglio Salvini: manifesta la capacità di usare il potere politico per aumentare il consenso elettorale e di usare il consenso elettorale per estendere il potere politico. Di Maio cerca di stare garbatamente nelle regole; ma l’altro gioca un’altra partita, in un altro campo, con altre regole e senza garbo.
La caratteristica della politicità assoluta si estende alla comunicazione, che riguarda la forza dei contendenti più che i loro progetti. Inneggiare alla cancellazione della povertà dal balcone di palazzo Chigi dimostra l’esistenza di un potere che è in grado di parlare alla sua platea dalla sede del governo. L’on. Salvini che parla dal balcone del municipio di Forli ( i balconi sembrano un punto condiviso) riabilita implicitamente modelli del passato e manifesta un potere indiscusso, perché può riabilitare solo chi esercita un potere indiscusso.
Il contratto di governo é frutto di una intesa tra due forze che hanno obbiettivi diversi e a volte incompatibili. Una strategia unitaria vincolerebbe i poteri ad un programma. Invece i programmi sono due. Ciascuno vota le proposte dell’altro a condizione che l’altro voti le proprie. Il governo durerà sino a quando quel contratto sarà riconosciuto come valido da entrambe le parti. Infatti il valore politico del contratto non sta in quello che contiene ma nel fatto di essere riconosciuto come valido dai contendenti-alleati. Don Chisciotte, racconta Cervantes, incontra un gruppo di mercanti e ordina loro di riconoscere che Dulcinea del Toboso è la dama più bella del reame. Siamo pronti, gli risponde un mercante, ma vorremmo prima vedere il ritratto della dama. Troppo facile, risponde don Chisciotte; dovete riconoscere che è la più bella perché ve lo dico io.
Luciano Violante
Un governo comico che non fa ridere
Sempre più spesso chi fa il mio mestiere (cioè satira a partita Iva) si sente chiedere se la realtà non abbia superato la satira, se i politici non abbiano rubato il lavoro a noi comici, come sia possibile far più ridere degli originali, etc.; domande così ricorrenti da essere ormai diventate giaculatorie, meritorie esse stesse della satira più feroce.
E’ innegabile che questo Governo del Cambiamento sia comico di suo: è già incongruo, grottesco, deformato, esagerato, paradossale, Toninelli – tutte caratteristiche comiche per antonomasia. Ma questo governo, per restare nei tecnicismi comici, è un ulteriore ribaltamento, un ulteriore spiazzamento: è comico, sì, ma non fa ridere. Perché la comicità ha questa caratteristica: se si concretizza nella vita reale, smette di essere divertente e diventa una catastrofe. Siete mai scivolati su una buccia di banana, o ruzzolati giù da una scala? Non fa ridere, fa male. Siete mai entrati in un caffè e splash!? Non è divertente, è umiliante; e se non sapete nuotare rischiate anche di annegare, nel caffè. La comicità è divertente ma non come esperienza; e ciò vale anche per i monologhi di Grillo.
Ecco perché la satira può banchettare su un simile governo: perché compito della satira è far ridere proprio lì dove non c’è niente da ridere. Ma soprattutto, il “governo del cambiamento” è satiricamente fecondo perché ha ciò che gli ultimi esecutivi, da Monti a Gentiloni, non avevano: consenso. E la satira va proprio contro il consenso, contro l’approvazione della gente: “Di qualunque cosa si tratti io sono contrario”, cantava Groucho Marx.
Obbiettivo della satira in una democrazia è il popolo: perché in democrazia è il popolo che comanda, è il popolo che decide. E questo governo che esibisce i propri elettori, a loro volta arroganti ed esibizionisti, li espone alla satira. Del resto, chi meglio di un premier “avvocato del popolo” o di un ministro “padre di 60 milioni d’italiani” si prestano a una satira che finalmente aggiri i politici, li liquidi per quello che sono – e cioè pretesti, facciate, prestanome – e vada finalmente al cuore del problema democratico, il vero potere forte: gli elettori, una casta di intoccabili attaccati con le unghie e con i denti ai loro privilegi come il diritto di voto e la libertà di parola?
Grazie a questo governo, la satira è costretta a rimettersi in gioco, a uscire dalla sua comfort zone, ad abbandonare gli stereotipi e gli automatismi, e tornare così a essere satira. Una satira che castiga non tanto e non solo l’illegalità (per quella ci sono o ci dovrebbero essere le leggi); ma la stupidità. La satira può sempre superare la realtà: basta che abbandoni un po’ il giornalismo e la denuncia, per riscoprire la fantasia.
Non mi resta che ringraziare questo governo, per la grande occasione professionale che offre a un satirico come me. Trovo di grande ispirazione fare satira sull’Italia del 2019. Anche se preferirei farlo dalla Svizzera.
Saverio Raimondo
I giovani, prime vittime del cambiamento che non c’è
Il primo anno del governo gialloverde non può essere valutato separatamente dai risultati delle elezioni europee che mostrano chiaramente che Matteo Salvini ha convinto molti nuovi elettori mentre Di Maio ha deluso gran parte dei suoi. Eppure, come i grillini hanno spesso rivendicato, i tre quarti dei provvedimenti adottati dal governo sono attribuibili a iniziative del M5s e, tra questi, il reddito di cittadinanza e il decreto-dignità potevano apparire come rimedi a un disagio sociale diffuso e perciò non sgraditi a una vasta area anche al di fuori del Movimento.
Perché questo paradosso? Perché Salvini è stato molto abile e coerente nell’orientare i suoi messaggi (spesso ingiuriosi nei confronti di nemici veri o presunti) verso quella parte della popolazione che più conta elettoralmente ed economicamente: quella anziana, mediamente più conservatrice, impaurita dal futuro, nostalgica delle sicurezze perdute, desiderosa di ritrovarle nell’immediato, anche a scapito del debito pubblico, percepito più come problema creato dalle banche che non come onere trasferito alle generazioni giovani e future. La sua martellante insistenza sulla sicurezza (minata dagli immigrati), sulla cancellazione “della Fornero” (come modo per dare lavoro ai giovani), sulla necessità di liberarci dai vincoli imposti dall’Europa, ha stravinto. Almeno per il momento.
Il voto perciò è coerente, dal lato dei Cinque stelle, con l’incompetenza, il divario tra l’enfasi delle dichiarazioni e il piccolo cabotaggio delle realizzazioni, gli incredibili voltafaccia e, dal lato della Lega, con l’aggressività verbale e il richiamo costante all’“uomo forte”. Quella che a me pare la vera anomalia del voto italiano – ma anch’essa coerente con la politica del governo – è l’assenza della componente verde: quella più dinamica e più rivolta al futuro. In Francia i Verdi hanno conquistato più del doppio dei seggi dei socialisti, in Germania sono diventati il secondo partito, in Italia quasi non esistono. Un’analoga assenza si ha in Grecia e nei paesi dell’Est: Polonia, Ungheria, Romania e Bulgaria.
Poiché i Verdi raccolgono forti percentuali del voto giovanile, è ragionevole collegarne l’assenza con la forte presenza dei NEET, la sigla che, nelle statistiche del lavoro, indica i giovani che non studiano, né seguono una formazione professionale e neppure lavorano. Giovani privi (privati) di prospettive e di speranze. L’Italia è in testa alle classifiche europee dei NEET, seguita dai paesi sopra menzionati.
I giovani italiani ai quali il governo non ha dato prospettive possono essere considerati le vere vittime del non-rinnovamento del paese; anzi, per vari aspetti, delle retromarce innestate su riforme precedenti perché tutto quello che era stato fatto da quelli di prima andava considerato un “massacro sociale”. Così il governo del cambiamento ha spostato all’indietro le lancette dell’orologio, i giovani hanno perso un’altra occasione o l’hanno cercata altrove, spesso in quell’Europa tanto bistrattata dove, però, possono almeno provare a raccogliere una qualche sfida.
Elsa Fornero
La spiacevole aritmetica sovranista (e i persistenti no euro)
Nei primi quattro mesi del 2018, il Tesoro ha emesso Btp a 10 anni per un valore di circa 13 miliardi di euro a un tasso d’interesse medio dell’1,9 per cento (lo spread con rispetto ai titoli decennali tedeschi era l’1,2 per cento). Nell’asta di fine maggio 2018 il rendimento richiesto dagli investitori in Btp decennali è schizzato al 3 per cento; è poi oscillato tra il 2,6 per cento e il 3,25 per cento nei dodici mesi successivi. Nello stesso periodo il rendimento dei Bund tedeschi è passato dallo 0,6 per cento allo 0,2 per cento, portando lo spread dell’Italia al 2,9 per cento (quasi due punti percentuali sopra quello spagnolo e solo mezzo punto sotto quello greco).
I dati del Tesoro suggeriscono che negli ultimi 12 mesi il costo delle nuove emissioni di titoli è aumentato di circa 0,8 punti percentuali (questa è una media ponderata di tutti i titoli emessi dal Tesoro). Se lo spread fosse rimasto invariato, vi sarebbe stata una riduzione del tasso medio di circa 0,3 punti percentuali. L’aumento dello spread ha così portato a un aumento del costo delle nuove emissioni di debito italiano di circa 1,1 punti percentuali. Dato che in questo periodo il Tesoro ha emesso titoli per quasi 300 miliardi di euro, l’aumento dello spread è costato 3,3 miliardi di euro: lo 0,2 per cento del pil. Chi si ricorda il confronto tra governo e Commissione europea sul rapporto deficit/pil per il 2019? La tensione era sullo 0,4 per cento del pil. Lo spread si è già mangiato la metà di questa differenza. Ma perché è aumentato lo spread? In macroeconomia è difficile avere certezze, però in questo caso l’aumento dello spread sembra legato a due eventi ben precisi: la pubblicazione di una bozza del “contratto del cambiamento” (che, tra le altre cose, prevedeva la richiesta di cancellare 250 miliardi di titoli di stato in mano alla Bce e, seppur indirettamente, contemplava l’uscita dall’euro) e la pubblicazione del piano B per l’uscita dall’euro di Paolo Savona.
Sembra quindi che l’aumento dello spread sia principalmente legato al rischio di Italexit.
Ma se questo è il caso, perché lo spread non è diminuito quando i leader dei due partiti di governo hanno dichiarato più volte che non vi è nessuna intenzione di uscire dall’euro? Forse perché queste dichiarazioni, soprattutto quelle della Lega, non sono pienamente credibili.
Il programma della Lega per le elezioni politiche del 2018 (ancora disponibile sul sito ufficiale del partito) sostiene che l’euro è la causa principale del declino economico italiano e vi sono all’interno del partito figure con importanti cariche istituzionali che hanno sempre avuto forti posizioni anti euro. Infatti, nelle elezioni europee del 26 maggio la Lega ha candidato due esponenti del campo anti euro (uno di questi candidati è presidente dell’associazione Progetto Euroexit).
Vari esponenti del governo hanno dichiarato più volte che il problema del debito può essere, almeno in parte, risolto con una politica fiscale espansiva pro crescita. Entrare in questa discussione richiederebbe una lunga e complicata analisi dei moltiplicatori fiscali (vale la pena notare che i casi in cui un aumento del deficit ha portato a una riduzione del rapporto debito/pil sono rari). Quello che però è chiaro è che dichiarazioni e azioni che creano incertezza sulla volontà di rimanere nell’euro fanno aumentare il costo del nostro debito (e quindi il deficit) senza avere nessun effetto positivo sulla crescita economica. In questo senso, le ripetute uscite del governo sulla monetizzazione del debito o la recente discussione sui minibot potrebbero portare a profezie che si autorealizzano, spingendo il paese verso il famigerato “incidente”.
In conclusione, forse le dichiarazioni dei partiti di governo non hanno fatto abbassare lo spread perché le azioni sono più importanti delle parole. Chi crederebbe a un presidente di una squadra di calcio che promette gioco d’attacco, ma poi assume un allenatore che ha sempre praticato il catenaccio?
Ugo Panizza
I danni della spesa in deficit
Suo malgrado e con costi elevati per gli italiani, l’Italia sta dando ai populisti di tutto il mondo una lezione di economia che ha un valore straordinario perché scaturisce da un’esperienza vissuta. Sin da prima del suo insediamento, il governo si è meritato la sfiducia degli investitori e degli imprenditori, italiani ed esteri, oltre che per la sua incompetenza, perché era chiaro che non avrebbe fatto ciò che è necessario per evitare due scenari da incubo: l’uscita dall’euro e la ristrutturazione del debito pubblico.
Si discute se esista davvero e che consistenza possa avere la cosiddetta austerità espansiva, ma oggi abbiamo la certezza che esiste il suo contrario, ossia l’espansione recessiva. Sin dall’ inizio, era evidente che il governo non si sarebbe preoccupato della sostenibilità del debito pubblico e avrebbe invece cercato di dare attuazione alle spropositate promesse elettorali dei due partiti che lo costituiscono. Era quindi chiaro che l’avanzo primario si sarebbe assottigliato, anziché aumentare verso quel livello del 3-4 per cento che è necessario per mettere il rapporto debito/pil su una traiettoria discendente. Questa circostanza, assieme a molte parole incaute sull’Europa, sull’euro e sui mercati, ha determinato il crollo degli indici di fiducia, soprattutto delle imprese, e l’aumento dello spread. Di qui, oltre che dal rallentamento del commercio mondiale, è derivato il sostanziale blocco dall’estate scorsa degli investimenti, in particolare di quelli in macchinari che sono più facilmente riprogrammabili in funzione degli andamenti della congiuntura. Dai dati più recenti sul calo della fiducia e sull’aumento dei depositi bancari sembra che cominci a prevalere la paura anche fra le famiglie che pure in maggioranza hanno votato per uno dei due partiti al governo.
I danni di una politica di spesa in deficit si manifesteranno con tutta evidenza nella prossima manovra di bilancio. Se il governo farà ciò che è scritto nel Def e aumenterà l’Iva, otterrà l’effetto di migliorare il bilancio pubblico, ma di peggiorare lo stato dell’economia reale. Se invece lascerà che il disavanzo aumenti fino e oltre il 3 per cento, otterrà l’effetto di aggravare la sfiducia degli investitori, con la conseguenza che lo spread aumenterà ulteriormente: anche in questo caso peggiorerà lo stato dell’economia reale. Il fatto di avere attuato in deficit le promesse elettorali ha dunque messo il paese in una trappola. L’obiettivo era di combattere la povertà con il reddito di cittadinanza e migliorare la vita dei sessantenni con quota 100. L’effetto sarà invece quello di aumentare il numero di poveri e di persone, giovani e meno giovani, in stato di disagio sociale.
Si realizza in sostanza quella eterogenesi dei fini che è ben nota agli economisti, ma anche ai politici con un minimo di cultura economica. Non sembra invece essere nota agli attuali governanti; o quanto meno così sembra quando si sentono le sconcertanti banalità del premier Conte secondo il quale, dopo trent’anni di austerità (sic!), c’è finalmente un governo che fa gli interessi del popolo, il che lo rende orgoglioso di definirsi populista. Conte dovrà ricredersi perché le azioni del suo governo stanno generando conseguenze opposte a quelle che erano le intenzioni.
Giampaolo Galli
Qui ci vorrebbe un po’ di antisfascismo
Dopo il 40 per cento del Pd alle europee e all’apice del renzismo, Christian Rocca pubblicò un the-best-of degli interventi che erano apparsi nella sua rivista IL con dentro anche molti foglianti e un titolo emblematico e lapidario: “Non si può tornare indietro. Cronache dall’Italia che cambia”. Dio solo sa quanto ci sbagliavamo. In Italia si può tornare indietro sempre e con una velocità e disinvoltura che annichiliscono qualsiasi progetto per il futuro. Via libera all’ubriacatura populista portata in trionfo in tutti i talk-show, via libera a “Povera patria” e “Popolo sovrano” e “signora mia la casta rubano” dopo il Tg, via libera alla democrazia del televoto, all’abolizione della povertà, ai festeggiamenti sudamericani per il default, ai selfie con la pizza, la Nutella, le uova al tegamino. Ecco il flash-mob di Aleksandr Dugin al Colosseo quadrato dell’Eur, un po’ fasciometafisico, un po’ collezione Fendi, per il lancio del tour italiano di reading e conferenze con il “Centro studi Ordine Nuovo” e i vertici Rai, ovvero il direttore del Tg2, Sangiuliano e il vicepresidente del cda Giampaolo Rossi. Riecco il culto delle okkupazioni, i centri sociali, CasaPound, i Druidi di Altaforte, lo Strega da assegnare per comprovato antifascismo (l’ha detto Scurati per il suo “M”), riecco la sinistra dei territori, della base, della patrimoniale. L’anticapitalismo si porta ormai in tutte le salse, alla Bannon, alla Marx, alla Freccero. Torna anche la falce e martello sulla scheda elettorale, “per il rafforzamento della lotta operaia, contro lo sfruttamento capitalistico e l’Unione Europea”. Si gonfiano i petti per l’emergenza democratica, si va in piazza per l’unità antifascista eppure non si intravede uno straccio di strategia antisfascista.
Andrea Minuz
In Europa nulla è cambiato
Il Movimento 5 stelle e La Lega hanno fatto nella campagna elettorale dello scorso anno la stessa promessa: “Mai più a Bruxelles con il cappello in mano”. I governi di centrosinistra si sarebbero piegati agli euro-burocrati che avrebbero imposto austerità e sacrifici, condannando il paese al declino e all’irrilevanza. E, così, uno dei punti principali del contratto firmato da Luigi Di Maio e Matteo Salvini è diventato proprio il rafforzamento del ruolo dell’Italia in un’Europa che, però, secondo i due leader, deve essere radicalmente cambiata. L’obiettivo è quello di creare un’Unione nuova, con regole diverse, capace di occuparsi dei popoli – non più delle banche – dove l’Italia possa ritornare a essere protagonista.
A un anno dal loro insediamento, il bilancio dei risultati ottenuti è tutt’altro che positivo: le regole sono ancora lì e il peso dell’Italia ai tavoli negoziali è pressoché nullo. Il motivo di questa débâcle è presto detto: il governo gialloverde ha sbagliato “metodo”. Nella battaglia sulle regole fiscali, ha scelto lo scontro, in quella sulla governance ha scelto l’isolamento: entrambe le strategie si sono rivelate fallimentari. Vediamo il perché.
L’esecutivo aveva promesso di fare la voce grossa sulle norme fiscali. E così è stato: nella prima bozza della Legge di Bilancio 2019, nessuno dei parametri relativi al disavanzo nominale, al disavanzo strutturale e al debito era stato rispettato. La reazione di chi compra il nostro debito pubblico è stata di grande preoccupazione – in pochissimo tempo, lo spread è salito a oltre 500 punti base –, quella di Bruxelles di grande fermezza: le regole, soprattutto per un paese che vanta il secondo debito in rapporto al pil più elevato dopo la Grecia, devono essere rispettate. Il braccio di ferro si è concluso solo a dicembre, quando il governo è tornato sui suoi passi fissando il disavanzo al 2 per cento (dall’iniziale 2,4). Questa decisione ha contribuito a calmierare i mercati finanziari. Tuttavia, l’eredità del “metodo dello scontro” è pesante sia in termini di maggiore spread – che resta ancora su livelli doppi rispetto a quelli dell’inizio del 2018 – sia in termini di perdita di credibilità: mettere i conti in ordine era uno degli impegni presi dal premier Conte nel suo discorso di insediamento. La Commissione effettuerà una valutazione sullo stato delle finanze italiane a breve. C’è da attendersi che manterrà la stessa impostazione dell’autunno scorso. Del resto, il risultato elettorale – nonostante il trionfo della Lega – non è tale da consentire alle forze sovraniste di imporre il cambiamento promesso.
Per quanto riguarda i dossier relativi all’architettura economica europea, l’Italia ha deciso di non creare intese con gli alleati storici come la Germania e la Francia. Con quest’ultima si è persino sfiorata una crisi diplomatica (la situazione è poi rientrata grazie all’intervento del presidente Mattarella). Eppure, un’alleanza con i cugini d’Oltralpe avrebbe consentito di rafforzare il fronte di chi vuole portare avanti dossier fondamentali per un paese come il nostro, a cominciare dal completamento dell’unione bancaria. La Germania sta bloccando l’introduzione del terzo pilastro, ossia la creazione di una garanzia unica per i depositi sotto i centomila mila euro. Un simile fondo fornirebbe una solida tutela ai risparmiatori, senza dover far ricorso ai soldi dei contribuenti come è accaduto con il decreto “Truffati dalle banche”. Anche per quanto riguarda la costituzione di un budget dell’area dell’euro, il governo non ha creato alleanze. L’idea della Francia è quella di utilizzarlo come fonte di competitività e convergenza. L’Italia potrebbe, invece, spingere verso un utilizzo più ampio, che includa anche quello della stabilizzazione in caso di shock. L’obiettivo potrebbe essere quello della creazione di uno schema di assicurazione comune per la disoccupazione. Su entrambi i dossier, l’esecutivo ha scelto di non stare dalla parte di chi propone un’Europa con una maggiore condivisione dei rischi, mentre si è schierato con chi propone un’Europa con maggiore riduzione dei rischi (leggi meno debito, meno disavanzo), l’esatto opposto di quello che aveva dichiarato in campagna elettorale.
A conti fatti, dopo un anno di Lega e Movimento 5 stelle nulla è cambiato in Europa. Non resta, quindi, che cambiare metodo: invece degli scontri e dell’isolamento, si costruiscano solide alleanze. Recuperare rapporti logorati sarà complesso e richiederà del tempo, soprattutto, in presenza di un nuovo parlamento dove le forze sovraniste sono avanzate – in particolare in Italia e in Francia - ma non hanno cambiato gli equilibri tradizionali. Nell’immediato, tuttavia, il governo gialloverde potrebbe cominciare con una mossa facile: nominare il ministro per gli Affari europei. Paolo Savona si è dimesso il 12 marzo e da allora la delega è passata a interim al premier Conte. Trovare un ministro presente a Bruxelles (Savona non ci è mai andato) sarebbe un passo in avanti verso il rafforzamento dell’Italia in Europa tanto auspicato da Salvini e Di Maio.
Veronica De Romanis
La sfiducia nel lavoro degli italiani
Lega e Cinque stelle nemici-amici, eppure al governo insieme. Oltre al sempre suadente potere con cariche connesse, qual è il vero collante di questa cordiale inimicizia? E’ soprattutto un modo di intendere il lavoro, la sua portata e i suoi limiti. Questa coalizione politica vede il lavoro attraverso una sintesi tra due atteggiamenti diffusi nel nostro paese, seppur non maggioritari. Si tratta degli “sfiduciati istituzionali” e degli “individualisti economici”. I primi credono che il valore delle relazioni sia così pervasivo e potente da determinare il destino lavorativo di tutti. Questa parte del paese, minoritaria ma non trascurabile, crede che il lavoro sia una concessione che si ottiene per le proprie relazioni. Se quindi non lo si ha, è perché qualcuno o il “sistema” lo nega. Il lavoro e l’impegno individuale sono secondari, perché le posizioni migliori saranno appalto esclusivo dei “raccomandati”. Queste persone non credono alla possibilità del paese di riformarsi ma vogliono una garanzia, una tutela del sistema e dal sistema, come un reddito a prescindere (o quasi).
I secondi – gli “individualisti economici” – hanno fiducia nel proprio lavoro ma dubitano di quello altrui e, soprattutto, dello stato e delle sue articolazioni. Questa parte di paese crede che il lavoro ciascuno lo crei da solo, a prescindere da tutto, e chiede solo di essere lasciata in pace. Se lo stato non è in grado di aiutarli, essi vogliono essere lasciati liberi di lavorare, liberi da interferenze e, quindi, dalle tasse.
La radice comune – la sfiducia verso le riforme – di questi due atteggiamenti ha trovato risposta nei provvedimenti simbolo del governo gialloverde: il reddito di cittadinanza non nasce come strumento di contrasto alla povertà attraverso l’avviamento al lavoro, vale invece come leva di rivalsa sociale, per liberare il lavoratore dal “ricatto dell’offerta di lavoro” (copyright Luigi Di Maio); la flat-tax per qualcuno non è una riduzione fiscale alla ricerca di equità, ma diventa uno strumento del cittadino “operoso” per dire che con lo stato italiano non si vuole avere nulla a che fare; infine, il cerchio è chiuso con il più vecchio degli strumenti, padre di profonde iniquità: il pre-pensionamento, nella aggiornata versione di Quota 100. Tutto non è che la logica conseguenza degli atteggiamenti alla base – elettorale – della politica gialloverde.
Chi governa non è certo un imbecille: sa perfettamente che la crescita del lavoro garantisce la propria permanenza in quel ruolo. Semplicemente questi governanti, come una minoranza dei loro elettori, non credono che l’Italia e la sua economia siano in grado di trasformarsi abbastanza velocemente per produrre sufficiente occupazione. Non credono nella capacità del nostro paese di cambiare profondamente perché dubitano della loro capacità di riformarla.
Queste concezioni del lavoro non sono nulla di nuovo e si reggono su pezzi di verità. E’ vero che nel nostro paese il capitale relazionale è a tratti asfissiante e l’imprevedibilità della pubblica amministrazione è spesso disarmante. Ma ogni mezza verità, se usata come presupposto di un ragionamento deduttivo, si trasforma in bugia.
Il governo gialloverde non ha inventato nulla di nuovo, ha solo collegato il peggio della cultura antilavoristica del paese sotto l’ombrello del deficit di bilancio. La soluzione, l’antitesi di questo peggio, non è di fronte a noi: sono gli investimenti, soprattutto privati, che un governo può cercare di attivare se crede nel valore del lavoro. Nell’Italia di oggi, ancora al più basso livello degli investimenti tra tutte le economie avanzate e al di sotto del 2008, si misura nella percentuale di reddito che va nella trasformazione produttiva la determinazione di un governo e della politica a voler provare a cambiare le cose. La mancanza della parola “investimenti” nella retorica del governo è la misura della sua sfiducia nel lavoro degli italiani.
Filippo Taddei
Il cambiamento dei non ristoranti: evviva!
Essendo vivo, e senza nessuna intenzione di eutanasizzarmi, mi impongo di pensare positivo. Dunque non mi concentrerò sul cambiamento in peggio che più mi ha colpito in questi ultimi dodici mesi: il ritorno della censura, l’orrenda cacciata di un libro dal Salone del Libro, fra gli applausi di tanti scrittori di libri e lettori di libri. Gente fetente. Scriverò su un cambiamento in meglio: il boom dei non ristoranti, dei ristoranti senza licenza da ristorante. Sono gli home restaurant, gli agriturismi, i circoli privati, i baracchini e i furgoncini (vulgo street food) e soprattutto le nuovissime gastronomie con tavoli, quei localini deliziosi contro cui la Fipe, Federazione italiana pubblici esercizi, ha appena scagliato un manifesto condiviso dai cuochi più pomposi (vulgo stellati). Una richiesta statalista di più regole per tutti, anziché di meno regole per tutti, un appello masochista affinché il Potere sadico sottoponga le imprese a un più stretto bondage, con lacci e lacciuoli ulteriori, insomma un manifesto contro la libertà di ristorazione firmando il quale Carlo Cracco si è candidato a diventare il Christian Raimo dell’alta cucina, contento lui.
Fortunatamente il mondo del cibo è molto più vitale del mondo del libro e stavolta la mortifera censura non dovrebbe prevalere. E potrò tornare a Ferrara alla Manifattura Alimentare, aperta per l’appunto meno di un anno fa, dove si beve un vino pugliese rifermentato in bottiglia che nei ristoranti pugliesi con tovaglie e camerieri non ho mai trovato. Il manifesto Fipe ha torto pure in questo, accusa i localini di standard gastronomici inferiori mentre spesso è il contrario: se a Parma cerchi un connubio fra qualità e parmigianità non puoi non entrare da Tra l’Uss e l’Asa, gastronomia con tavoli e senza bagno, ebbene sì, e a Milano se cerchi una cervellina fritta alla perfezione ti tocca andare in Darsena alla Macelleria Popolare, senza bagno e senza nemmeno tavoli, accidenti. Negli ultimi dodici mesi la moltiplicazione dei non ristoranti, gli scomodi ma simpatici ristoranti senza licenza di ristorazione, è stata uno dei pochi segni di vitalità del panorama italiano. Un fenomeno legato alla famosa arte di arrangiarsi (esatto opposto del parassitario reddito di cittadinanza) e ai keynesiani spiriti animali: una cosa bellissima.
Camillo Langone
Cina e Libia, peccati di azione e di omissione
Il governo gialloverde in politica estera ha commesso peccati di azione e di omissione. Di omissione perché non è intervenuto per bloccare la guerra civile in Libia quando ancora si poteva. Tra il vertice di Palermo con i due leader libici, Fayez al Serraj e Khalifa Haftar, di novembre e l’attacco di Haftar per prendere Tripoli all’inizio di aprile passano più di quattro mesi in cui era chiaro cosa si stesse preparando, soprattutto all’Italia che da sempre è molto attenta – vedi i servizi segreti – a cosa succede in Libia. Haftar ha passato l’inverno a spostarsi con lentezza verso Tripoli, a occupare pozzi di petrolio e a stringere alleanze con i locali in zone strategiche vicine alla capitale. Tre governi italiani di seguito, Renzi Gentiloni Conte, avevano investito molto in sforzi diplomatici per portare la Libia verso la riconciliazione e Conte aveva persino ottenuto una delega da Trump come “responsabile del dossier libico” a fine luglio 2017. E il risultato è che Haftar ci ha ignorato, ha gettato via i piani di pace con l’appoggio dei paesi del Golfo e ha scatenato la guerra che gli avevamo chiesto di non fare. E Trump, anche lui in contatto con i paesi del Golfo, ora lo appoggia. Insomma, il governo italiano sulla sua principale questione estera, la Libia, è stato spinto da parte con brutalità. E se è successo, è perché i suoi interlocutori lo considerano debole, c’è un deficit di credibilità. Si vede da lontano che questo esecutivo non ha tempo, voglia e capacità per occuparsi anche di quello che succede fuori. Del resto, “che ci frega di andare a Lione?”. Tuttavia, molti costi della guerra civile in Libia finiremo per subirli noi, a meno che non si risolva subito con una battaglia definitiva – ma non sembra questo il caso.
Il peccato di azione è la firma del memorandum di intesa sulla Belt and Road Initiative con la Cina. Non si capisce quali saranno le conseguenze pratiche, ma ci sono posizioni molto forti e ragionevoli in occidente che si possono riassumere così: la Cina potrebbe diventare presto un avversario, non è mai stata un’entità neutrale, meglio non concederle troppe aperture. L’America sta di fatto boicottando i prodotti della Huawei, la compagnia di telecomunicazioni più grande della Cina e in rapida espansione nel mondo, perché teme che presto ci saranno problemi di sicurezza. Noi invece abbiamo deciso di fare un gesto di fiducia e di firmare un accordo che somiglia a un contratto con parti ancora in bianco e a sponsorizzare questo accordo c’è Luigi Di Maio, uno che dice e scrive “presidente Ping” – perché non sa che il leader della Cina si chiama Xi Jinping. Questa inadeguatezza tragica ci fa ridere, ma sono risate senza allegria.
Daniele Raineri
L’Italia e l’Europa: il rischio dell’isolamento
Il problema posto dall’avvio della procedura dell’Unione europea sul debito pubblico dell’Italia va oltre la dimensione della politica di bilancio (ben illustrata da Guido Tabellini il 5 giugno). Non è neppure un problema esclusivamente economico. E’ anche, e forse anzi soprattutto, un problema di “contesto” istituzionale e politico, che impone un’attenta riflessione non soltanto a chi contingentemente ha responsabilità di governo, ma a tutti.
Che non si tratti soltanto di un problema di bilancio è dimostrato dal fatto che, nel valutare i conti pubblici italiani, le istituzioni dell’Unione devono tenere conto d’una serie di fattori rilevanti. Inoltre, un’eventuale decisione sfavorevole finirebbe per influire sulle misure relative al governo della moneta. Che il problema sia politico, oltre che economico, è dimostrato dalle vicende dei partner europei i quali – diversamente dall’Italia – hanno chiesto e ottenuto varie forme di sostegno esterno negli anni della crisi, subendo significative limitazioni della propria capacità di decisione e di azione in più ambiti. L’attuale contesto è, per noi, migliore di allora. Ma potrebbe peggiorare se, fin dall’avvio della procedura europea sul debito, non si instaurasse una piena cooperazione tra i governanti italiani, i membri della commissione e i rappresentanti degli altri stati membri dell’Unione, se da ciò derivasse una diminuzione della fiducia dei nostri partner e degli operatori finanziari nella capacità del nostro paese di adempiere gli impegni assunti, di rettificare alcune scelte incaute, d’impostarne e realizzarne efficacemente altre, soprattutto sul versante degli investimenti pubblici. Essi contribuirebbero alla ripresa, renderebbero meno cupe le prospettive per i nostri figli.
L’innestarsi d’una dinamica negativa nella procedura ormai avviata comporta un rischio più generale, ossia che l’Italia sia percepita come poco affidabile, che resti isolata. Alcuni rapidi richiami alle vicende recenti dovrebbero indurre a prendere molto sul serio questo rischio. Da un lato, vari analisti hanno segnalato le reazioni negative con cui è stata accolta da tutti i partner europei la mancata adesione dell’Italia alla posizione comune dell’Unione sulla grave crisi istituzionale e umanitaria in atto nel Venezuela; hanno sottolineato il mancato invito a partecipare al vertice di Berlino sull’area balcanica; hanno colto l’importanza strategica dell’eventualità che solo altri paesi, non il nostro, siano coinvolti nella cooperazione più stretta che la Francia e la Germania hanno instaurato con il Trattato dell’Eliseo. Dall’altro lato, qualunque sia l’esito finale della decisione del Regno Unito di avviare il procedimento per l’uscita dall’Unione europea, dagli ultimi tre anni può trarsi un’importante lezione. Contrariamente alle aspettative di molti esponenti politici inglesi, i paesi membri hanno respinto ogni loro tentativo di svolgere negoziati bilaterali. Hanno agito in modo coeso, unitario. Hanno lasciato il Regno Unito in una posizione isolata, esaltandone la debolezza al tavolo delle trattative e la frammentazione al proprio interno, nelle istituzioni e nella società.
Per un paradosso solo apparente, il primo caso di recesso di uno stato membro dall’Unione europea ha avuto l’effetto di rafforzarla, oltre che di far comprendere a tutti quanto siano stretti, inestricabili i legami instaurati nel corso del tempo. Ciò conferma che, con l’eccezione di pochissimi paesi aventi dimensioni continentali e capaci d’influire sullo scacchiere mondiale, l’unico modo con cui le nazioni moderne possono davvero tutelare i propri interessi consiste nel curarli insieme ad altri, nel cooperare. Non a caso, mentre il governo inglese si allontana ogni giorno di più dall’Unione europea, dichiara di voler instaurare una collaborazione ancor più stretta sul delicatissimo versante della prevenzione del terrorismo. E’ un’intenzione lodevole ma che purtroppo si scontra con formidabili ostacoli, giuridici e pratici. Come si possono condividere i dati “sensibili” con chi non fa parte dell’Unione? Come si possono svolgere congiuntamente le altre attività amministrative volte a garantire la sicurezza collettiva se non si condividono le regole di condotta e il sistema di controlli giurisdizionali che servono ad assicurarne il rispetto?
Insomma, il contesto attuale è profondamente diverso rispetto a un secolo fa, quando si consolidarono alcuni miti sulla sovranità, che non giovarono alle sorti dell’Europa di allora e, a maggior ragione, non gioveranno oggi. Ostinarsi a inseguire i miti del passato, rifiutarsi di comprendere il mutato contesto in cui viviamo, astenersi dal fare tutto ciò che è possibile per conservare intatta la fiducia dei partner con cui da più tempo condividiamo l’integrazione più stretta può comportare conseguenze assai negative per la reputazione dell’Italia, per le imprese, per i cittadini. All’opposto, molto può essere ottenuto con un uso oculato dei poteri di cui il governo dispone, con un costante raccordo con le istituzioni europee che abbiamo concorso a fondare proprio per non ripetere gli errori del passato.
Giacinto della Cananea
Le pensioni fanno aumentare in modo insostenibile la spesa
Per valutare il primo anno di governo riguardo alla spesa pubblica è necessario da un lato guardare alle variazione delle poste di bilancio e dall’altro lato valutare l’impatto di più lungo periodo delle misure adottate. Il primo compito è relativamente agevole, basta guardare ai numeri che appaiono nei documenti di finanza pubblica. Il secondo è più complicato, richiede di valutare l’evoluzione dei provvedimenti di spesa e la presumibile reazione del potere politico e dell’elettorato. Come dice una vecchia battuta, le previsioni sono sempre difficili quando riguardano il futuro.
Cominciamo quindi dalla parte facile. Secondo il Documento di economia e finanza (Def) approvato nell’aprile 2019, la spesa primaria nel 2018 è stata di 788,6 miliardi di euro mentre quella del 2019 è prevista essere pari a 805,7. La parte del leone in questo incremento di 17,1 miliardi la fa la spesa per pensioni, che cresce di 8,6 miliardi. Le altre prestazioni sociali arrivano in seconda posizione, con una crescita di 6,6 miliardi. In rapporto al pil, la spesa primaria passa dal 44,9 per cento del 2018 al 45,3 per cento del 2019, un incremento di 0,4 punti. Dato che la spesa per prestazioni sociali (pensioni e assistenza) è cresciuta dello 0,6 per cento, esso è stato in parte bilanciato dal calo di altre spese. Senza entrare in troppi dettagli, segnaliamo un calo dal 3,3 per cento del pil nel 2018 al 3,2 per cento del pil nel 2019 delle spese in conto capitale. Riassumendo in modo un po’ brutale, la spesa ha continuato ad aumentare in modo insostenibile e la principale ragione è l’aumento della spesa pensionistica e previdenziale. E’ una pessima notizia, dato che lo sbilanciamento della spesa pubblica verso la spesa pensionistica è una delle principali storture dell’economia italiana. Al contempo la contrazione della spesa in conto capitale mostra che continua la tendenza a diminuire la spesa per investimenti in favore della spesa per trasferimenti.
La spesa per interessi è risultata in leggera decrescita, passando da 63,7 miliardi nel 2018 a 62,9 nel 2019. La ragione della riduzione è che sono venuti in scadenza titoli emessi nel periodo di maggiore difficoltà delle finanze pubbliche, il 2008-2012, che pagavano tassi di interessi alti. Da allora i tassi di interessi sono calati ovunque. Il rimborso di tali titoli e il loro rimpiazzo con titoli che pagano un interesse più basso ha ridotto la spesa per interessi. Purtroppo sappiamo che dal maggio scorso gli interessi sui titoli sono cresciuti e ora hanno uno spread verso i titoli tedeschi del 2,5 per cento circa, valore che sale a ogni improvvida dichiarazione o provvedimento governativo. Il Def prevede che la spesa per interessi salga a 65,1 miliardi nel 2020 e a 69,0 miliardi nel 2021.
Cosa attendersi per il futuro? Nulla di buono. Le cifre ufficiali contenute nel Def prevedono un aumento della spesa previdenziale, in parte come risultato dei prepensionamenti (quota 100) decisi dal governo, l’ennesimo esempio di spesa che né serve ad aumentare l’efficienza economica né aiuta le fasce più povere della popolazione. Come tutti sanno a legislazione vigente è previsto un aumento dell’Iva per il 2020. Le forze politiche di maggioranza hanno più volte affermato che sono intenzionate a evitarlo ma non hanno mai spiegato come. In assenza di maggior chiarezza possiamo presumere che la strada sarà quella molte volte percorsa in passato: da un lato una compressione della spesa per investimenti e dall’altro un aumento il più possibile mascherato della pressione fiscale. Dato che è difficile immaginare che la Lega rinunci a uno dei provvedimenti che considera il proprio fiore all’occhiello, la spesa pensionistica continuerà a salire. Con una crescita economica nulla o negativa il finanziamento del fabbisogno si farà più difficile.
Sandro Brusco
Flat tax, un regime forfettario irragionevole
Che il nuovo regime forfettario per gli autonomi non sia una flat tax ma un ulteriore prelievo sostitutivo dell’Irpef che determina frammentazione, distorsioni e incentivi perversi dovrebbe ormai essere di comune dominio. Vi è tuttavia un aspetto che a oggi sembra sfuggito alle analisi.
L’estensione del regime forfettario a contribuenti con volume d’affari fino a 65 mila euro annui, congiuntamente all’eliminazione degli ulteriori requisiti di accesso (spese per lavoro dipendente e costo dei beni strumentali inferiori a certi ammontari), hanno trasformato la natura stessa del regime. Se questo si connotava fino al 2018 come un’agevolazione per i “minimi” e i soggetti marginali, date le caratteristiche strutturali di esercizio dell’attività, l’assenza di organizzazione e il basso volume di ricavi, ora esso si presenta come un regime sostitutivo dell’Irpef riguardante un’ampia platea di potenziali interessati, che dipende solo da un requisito erratico e inidoneo a giustificare una diminuita capacità di contribuire, ovvero dal mancato superamento, “nell’anno precedente”, di un certo ammontare di ricavi.
Nel nostro ordinamento, come è logico considerata la natura di flusso economico del reddito, l’imposta è dovuta per anni solari, a ciascuno dei quali corrisponde un’obbligazione tributaria autonoma. Il reddito tassabile ai fini Irpef va cioè determinato ex novo in ciascun periodo di imposta, e la sua idoneità a sopportare la contribuzione dovrebbe prescindere da accadimenti riguardanti periodi di imposta precedenti (salva la problematica connessa al riporto delle perdite). Un reddito dovrebbe cioè pagare imposte in una misura che non è influenzata dall’ammontare dei componenti positivi di reddito dell’anno precedente.
Il regime forfettario sovverte tuttavia questo assetto, collegando l’aliquota di tassazione all’ammontare dei ricavi conseguiti nel precedente periodo di imposta. Se questi non hanno valicato la soglia di 65 mila euro, il contribuente potrà tassare i redditi dell’anno successivo, di qualsivoglia ammontare, con l’aliquota unica del 15 per cento, molto più favorevole delle aliquote Irpef progressive, cui sarà invece assoggettato un diverso contribuente i cui ricavi nell’anno precedente hanno superato la soglia.
Dunque, a parità di reddito posseduto, due imprenditori o lavoratori autonomi sconteranno un carico fiscale completamente diverso in funzione di un parametro (il volume d’affari conseguito nell’anno precedente) che appare inidoneo a giustificare una diversa tassazione di redditi di identico ammontare, provenienti dalla medesima fonte produttiva.
Il problema di uguaglianza tributaria ed equità orizzontale che il nuovo regime forfettario solleva non riguarda dunque soltanto il confronto con i redditi di lavoro dipendente, dove forse la diversa categoria reddituale potrebbe fornire appigli per salvare la norma in un giudizio di costituzionalità, ma altresì redditi aventi la stessa fonte produttiva, da cui emerge la manifesta irragionevolezza del regime forfettario e il suo potenziale discriminatorio.
Dario Stevanato
Giustizia stravolta nel segno del populismo penale
Il primo anno di governo gialloverde è stato il trionfo della forca, nelle parole e nei fatti. Da un lato, Lega e Movimento 5 stelle hanno alimentato costantemente una retorica giustizialista, diretta ad alimentare gli impulsi più manettari dell’opinione pubblica. Si è partiti dalla gogna pubblica per mano governativa contro i vertici di Autostrade per il crollo del Ponte Morandi di Genova, si è passati attraverso le condanne preventive sui social contro gli immigrati da parte del ministro Salvini e lo show messo in piedi con il Guardasigilli Bonafede per il ritorno in Italia di Cesare Battisti, e infine si è arrivati alla critica pubblica nei confronti di sentenze giudiziarie ritenute troppo morbide verso gli imputati. Dall’altro lato, a questa coltivazione di un terreno fertile di stampo giustizialista si è affiancata l’approvazione di una serie di riforme che hanno stravolto la giustizia italiana nel segno del populismo penale: il via libera al prosieguo dello sputtanamento mediatico con lo stop alla riforma delle intercettazioni, lo svuotamento della riforma dell’ordinamento penitenziario (ritenuta uno “svuotacarceri”), l’approvazione della cosiddetta “riforma spazzacorrotti” (che ha introdotto pene più alte, più carcere, più uso di trojan, l’agente sotto copertura), l’abolizione della prescrizione che ci consegnerà processi a vita (a partire dal 2020), il primo voto favorevole all’introduzione del referendum propositivo in materia penale e il varo della riforma del voto di scambio (che ha reso ancora più evanescente questo reato, prevedendo una pena persino più alta di quella per l’associazione mafiosa). I messaggi sono chiarissimi. In nome di uno spirito di giustizia collettiva, si vuole impedire agli imprenditori di fare impresa, ai politici di fare politica, ai cittadini di esercitare la propria libertà essendo tutelati nei propri diritti fondamentali. Il bilancio è sconfortante e il peggio probabilmente deve ancora venire (la riforma del processo penale e civile).
Ermes Antonucci