Quattro casi che raccontano il Pd alle prese con la sua identità
Immigrazione, costi della politica, lavoro e organizzazione: il partito di Zingaretti prova a ridisegnare i propri contorni
Roma. Non sarà indolore il tentativo di ridisegnare i contorni del Pd, di dargli identità e in alcuni casi anche di prendere le distanze rispetto alle policies degli ultimi anni. Ma il tentativo c’è e gli indizi di questa virata, iniziata negli ultimi mesi, sono dappertutto. Prendiamo la questione dell’immigrazione. Matteo Orfini, critico verso la linea di Marco Minniti sulla Libia, adesso che non è più presidente del Pd è tornato ad avere un ruolo politicamente più attivo. Dice: “Tra una settimana in Aula ci sarà il voto sulla proroga della missione in Libia. Io sono contrario. E spero lo sia anche il Pd”. Per un motivo molto semplice, spiega Orfini: “Io lo capisco che non è semplice decidere cosa fare di fronte alle provocazioni di Salvini. Reagire, rischiando paradossalmente di fare il suo gioco o lasciar correre. E capisco il punto di vista di chi non vuole farsi dettare l’agenda. Però a tutto c’è un limite”. Medici senza frontiere e Sos Mediterranee due giorni fa hanno diffuso dei dati “agghiaccianti”, dice Orfini. “In un anno più di 1.000 morti nel Mediterraneo e almeno 10.000 persone riportate nei lager libici, dove vengono torturate e spesso uccise. Salvini si è detto orgoglioso di aver salvato tante vite umane, perché prima che lui chiudesse i porti ne morivano di più. Non è così”. Con il Mediterraneo svuotato dalle Ong “è difficile anche solo sapere quante persone provano a partire e perdono la vita durante il viaggio. È impossibile sapere quante ne muoiono in Libia nei lager, e quante ne avremmo salvate con i corridoi umanitari per chi scappa dalla guerra”.
Anche il Pd, dice Orfini, ha commesso degli errori gravi sulla questione: “Penso che inseguire la destra su questo terreno i voti ce li abbia fatti perdere”. Dunque, “ritroviamo il coraggio di essere davvero alternativi alle destre anche sui temi più difficili. Facciamolo riconoscendo i tanti nostri errori sulla gestione dell'immigrazione. Chiediamo che vengano stracciati gli accordi con la Libia sottoscritti dal governo Gentiloni, che sono la cornice che rende tutto questo possibile”. Sul tema immigrazione, peraltro, si è espresso duramente anche l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi alla festa di Repubblica qualche giorno fa, quando ha detto che il governo e la maggioranza di centrosinistra hanno sbagliato ad “aver utilizzato dal mese di giugno 2017 (quando c’era Paolo Gentiloni presidente del Consiglio, ndr) un linguaggio di terrore sulla questione migratoria mentre portavamo in Aula, senza avere il coraggio di approvarlo, lo ius soli”.
L’immigrazione tuttavia non è l’unico tema su cui nel Pd prova una riscrittura di se stesso. Prendiamo il Jobs Act, contro cui in questi giorni si è scagliato l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano, che proprio sul Foglio lo ha descritto come un “errore” sul quale “nell’estate del 2018 si è abbattuta la scure della Corte Costituzionale”. Anche nella gestione del partito ci sono alcuni cambi di passo. Mentre prima spadroneggiava la Fondazione Eyu ideata da Francesco Bonifazi, che era anche tesoriere del Pd, adesso è nata una fondazione per la cultura guidata da Gianni Cuperlo. Per non parlare della questione dei costi della politica. Nel 2013 fu il governo di centrosinistra di Enrico Letta ad abolire con il dl 149 i rimborsi elettorali, il nuovo tesoriere del Pd Luigi Zanda – che pure da capogruppo partecipo con il suo voto alla loro abolizione – sostiene da tempo che vadano reintrodotte forme di finanziamento pubblico per i partiti. Insomma tra immigrazione, lavoro e organizzazione del partito, il Pd è alla ricerca di un’anima e di una nuova identità. Resta da capire a quale prezzo.