Matteo Salvini (foto LaPresse)

La balla di Salvini filoamericano si perde nell'aerospazio. Una prova

Valerio Valentini

Il leghista si proclama paladino degli interessi di Trump contro l’asse franco-tedesco, troppo “filo-cinese”: ma in realtà Macron e Merkel fanno affari sia coi cinesi sia con gli americani

Roma. Con un’aria che sembra appartenere più a quella dello studente in gita che non a quella dello statista in viaggio diplomatico, mentre l’ambasciatore italiano Armando Varricchio aveva il suo bel daffare per richiamare ai doveri del protocollo i ragazzi indisciplinati dello staff comunicazione le “bestioline” di Luca Morisi appena fuori dalla Casa Bianca (“Non facciamoci sempre riconoscere”), Matteo Salvini gonfiava il petto a favore di telecamera. “L’Italia è il paese più credibile, l’alleato più solido degli Stati uniti in Europa, visto che altri, a Berlino e a Parigi, hanno dimostrato altre idee e altre volontà”. Dava l’impressione di avere capito la lezione, specie sull’inopportunità e sui rischi connessi alle intese tra Roma e Pechino sulla Via della Seta. Il governo grilloleghista, dunque, come “alternativa allo strapotere franco-tedesco”, argine europeo alla “prepotenza cinese”: questa, in sostanza, la narrazione proposta dal ministro dell’Interno per sintetizzare il senso del suo incontro con Mike Pompeo e Mike Pence, segretario di stato e vicepresidente americano. Come se, in definitiva, Donald Trump avesse deciso di chiedere un sostegno a Salvini per fermare l’avanzata cinese nel continente europeo. A guardare i fatti concreti, la realtà è ben altra: ed è una realtà fatta non di hashtag e like su Facebook, ma di miliardi di euro e di migliaia di posti di lavoro.

 

 

Nel settembre del 2018, quando cioè la celeste corrispondenza d’amorosi sensi sovranisti tra Washington e Roma era già al suo acme mediatico, Leonardo perde una delle commesse più importanti degli ultimi dieci anni, dal valore complessivo di oltre nove miliardi di euro: il Pentagono sceglie infatti di acquistare 351 aerei addestratori dall’americana Boeing, e non dall’azienda italiana che pure proponeva un aeroplano – l’M346 – da tutti ritenuto eccellente. Motivi insomma più diplomatici, che non strettamente tecnici, determinarono la sconfitta di Leonardo. Il tutto, appena dieci giorni dopo il rientro di Luigi Di Maio dal suo viaggio cinese, alla corte di “Mister Ping”, e degli annunci di un’accelerazione dell’intesa tra Roma e Pechino

 

Che sarebbe culminata, nel marzo seguente, nella firma del memorandum d’intesa sulla Via della seta, il più grande atto di legittimazione politica concesso da un paese occidentale a Pechino, in aperta ostilità ai desiderata di Washington. “E’ solo un accordo commerciale”, si giustificavano i ministri del governo gialloverde, alludendo a chissà quale crescita dell’export italiano in oriente. Peccato solo che di lì a pochi giorni, Emmanuel Macron, senza regalare alcuno spot mediatico a Xi, firmava col presidente cinese un accordo per l’acquisto di 290 Airbus A320 e 10 aerei di linea A350: tutti mezzi prodotti dalla Airbus, il colosso franco-tedesco.

 

Lo stesso che nelle scorse ore, al salone dell’aerospazio di Le Bourget a Parigi, ha annunciato ordini per oltre dieci miliardi da parte di Air Lease Corporation, tra le più importanti società americane nel mondo di leasing aeronautico. E questo avveniva nel mentre che il premier Giuseppe Conte, smentendo un anno e più di politica industriale grilloleghista fondata su un notevole sottofinanziamento della ricerca e dell’industria della Difesa, si adoperava come poteva, e con un’affabilità di modi perfino encomiabile, per promuovere i prodotti delle aziende italiane.

 

Sta tutta qui, la credibilità del grilloleghismo agli occhi degli Stati Uniti e del resto del mondo. Salvini si proclama paladino degli interessi americani nei confronti dell’asse franco-tedesco che sarebbe troppo “filo-cinese”: ma in realtà Macron e Angela Merkel, facendo una politica industriale e diplomatica degna di un paese occidentale, fanno ottimi affari sia coi cinesi sia con gli americani, e lo fanno – direbbero i sovranisti nostrani – “a testa alta”. Salvini, invece, dopo avere assecondato i progetti filocinesi del suo sottosegretario allo Sviluppo, quel Michele Geraci che è stato il più accanito fautore del memorandum con Pechino, finisce non solo col doversi accontentare di vendere nient’altro che qualche tonnellata di arance alla Cina, ma nel frattempo riesce pure a inimicarsi la diplomazia di Washington, essendo poi costretto a cospargersi il capo di cenere e a recarsi alla Casa Bianca “col cappello in mano” ma con l’aria spavalda di chi ostentava una disinvoltura affettata, buona per una diretta Facebook. Col risultato che, mentre le aziende franco-tedesche ottengono grandi risultati, quelle italiane rischiano perfino di risultare svantaggiate nella competizione globale.

Di più su questi argomenti: