E' una lite continua al governo
Le strane intese in Rai e gli sgambetti sul dl crescita rafforzano il partito del voto anticipato. La grana Ilva in Cdm
Roma. Quando Barbara Lezzi compare in Transatlantico col viso furente di chi ha capito troppo tardi di essersela fatta fare sotto il naso, è da poco passata l’ora di pranzo. “E’ stata un’imboscata”, si giustifica lei coi suoi deputati di riferimento, quelli meridionali. I quali un po’ l’ascoltano con aria scettica, poi si girano e sbuffano: “Se era un’imboscata, lei se n’è accorta col suo consueto ritardo”, sibila Maria Pallini, grillina avellinese. E’ l’ora di pranzo, dunque, e però la giornata parlamentare ha già regalato il primo incidente della maggioranza, e vive tutta nell’attesa di quello, già previsto, che arriverà in serata, quando Giulia Bongiorno, responsabile di fatto della Giustizia per la Lega, elencherà al Guardasigilli grillino Alfonso Bonafede tutte le storture da correggere, nella ancora vaga riforma del processo penale che il governo continua ad annunciare. Ma le pene cominciano all’alba, in questa ennesima puntata della commedia dell’assurdo gialloverde: cominciano, cioè, quando la convergenza tra Pd e M5s in commissione di Vigilanza Rai finalmente si realizza, dopo settimane di ammiccamenti reciproci e reciproci allontanamenti, trascorse senza che Massimiliano Capitanio, il leghista di riferimento in tema di tv pubblica, abbia mai davvero saputo scongiurare il rischio di una maggioranza alternativa. Che si salda infine su una risoluzione proposta dal M5s che impallina Marcello Foa, impegnando il presidente della Rai a rinunciare al suo secondo incarico al vertice di RaiCom. Nel marasma che ne segue, il presidente della commissione Alberto Barachini, di Forza Italia, si lascia sfuggire parole che risulteranno profetiche, nelle ore a seguire: “E’ una disperata prova di forza del M5s”. E infatti, di lì a poco, ecco la Lezzi e il suo muso lungo.
Lo ha capito tardi, la Lezzi, ma alla fine se ne è accorta davvero che i leghisti, con un semplice emendamento al decreto crescita, hanno in sostanza svuotato di risorse e competenze il suo ministero. E appena lo scopre, con appena due giorni di ritardo, fa la voce grossa: “Quell’emendamento va stralciato”. Solo che l’emendamento in questione – quello che attribuisce alle regioni, sottraendola al ministero preposto, “la titolarità e la gestione di tutte le risorse del Fondo sviluppo e coesione destinate al territorio regionale” tra il 2021 e il 2027 – è stato approvato col parere favorevole dello stesso M5s, per cui adesso i leghisti a rimuoverlo non ci pensano neppure. “Potevano leggerlo prima”, dicono. E ce l’hanno soprattutto con Laura Castelli, che lunedì scorso ha espresso proprio lei il parere favorevole a nome del governo su quell’emendamento.
E infatti si materializza anche il viceministro dell’Economia, a offrire giustificazioni ai deputati che la interrogano. “Laura, ma com’è stato possibile?”. E allora lei si prodiga in spiegazioni, mima in modo esplicito un gioco di subdola prestidigitazione, allude a fogli scambiati all’ultimo momento, in modo truffaldino, dai leghisti. Riappare, insomma, la “manina”, mentre quelli del Carroccio se la ridono: “Un piccolo passo parlamentare, un grande passo per gli italiani”, dice Cristian Invernizzi.
Ma il senso dell’agguato – quei 60 miliardi, all’80 per cento destinati alle regioni del sud, che la Lezzi si vedrebbe sottrarre – si capisce meglio solo a sera, quando la questione viene rimandata al Cdm. Non sono bastate le mediazioni tra Riccardo Fraccaro e i due capigruppo, D’Uva e Molinari, andate avanti per tutto il pomeriggio. E allora diventa chiaro che l’imboscata alla Lezzi è finalizzata a concedere alla Lega un’arma di contrattazione. L’autonomia, di cui il ministro del Sud è tra le più fiere oppositrici? “Non solo”. La matassa più impellente da sbrogliare è quella che riguarda Ilva: perché l’articolo voluto dal M5s, e dalla salentina Lezzi in particolare, al dl crescita, modifica ex post le tutele legali in vigore all’epoca in cui ArcelorMittal ha accettato d’investire nello stabilimento di Taranto, e dunque indurrebbe gli indiani a tirarsi indietro.
Alle otto di sera, quando il Cdm sta per iniziare, arriva però l’altra notizia che scombussola di nuovo tutto: Alessandro Di Battista si dice pronto a chiedere la deroga al limite dei due mandati “se il governo dovesse cadere, da qui al 15 luglio”. Un modo per evitare che sia Di Maio, a doverlo fare: segno che in fondo anche tra i grillini la crisi viene considerata più che possibile. “Ma prima di rompere, in ogni caso, Salvini punterebbe prima a incassare tutto il possibile, di qui ai prossimi dieci giorni”, dice Edoardo Rixi, l’ex viceministro ai Trasporti che si gode ora un po’ di relax sui divanetti del Transatlantico. Nell’attesa, chissà, di nuovi incarichi con nuovi governi.