Il bipolarismo non tornerà. E' ora di rompere con questo Pd
I progressisti hanno sepolto la vocazione maggioritaria. Perché è necessario un nuovo soggetto politico. Un manifesto
Il post su Fb con cui Carlo Calenda, a pochi giorni dalla sua elezione al Parlamento europeo, rinunciava ad impegnarsi a costruire la seconda gamba della coalizione progressista, poi ribadita nel recentissimo intervento sul Corriere della Sera, riassume tutta la rassegnazione che regna da quelle parti – che sono poi anche le nostre – nell’immaginare il futuro prossimo venturo della politica italiana. Da un lato il promotore di “Siamo Europei” rimprovera a Zingaretti (e non solo) di comprendere che occorre ampliare la coalizione, ma di non saper indicare “come” e, dall’altro, afferma che manca una sponda liberaldemocratica alla politica italiana, ma poi, lui (che avrebbe tutte le qualità per esserne il leader) decide di rinunciare a ulteriori tentativi e di rimanere “prigioniero”, a “occuparsi di Europa in Europa”, in uno dei gruppi politici (i socialisti) su cui ricade una buona fetta di responsabilità, al pari dei popolari, per quanto “non si è fatto” in questi anni nell’Ue per ridurre lo strapotere del Consiglio europeo sulla Commissione e sul Parlamento. Per ragionare seriamente sulla costruzione dell’alternativa a questa destra non ha alcun senso rimanere dentro agli schemi a cui ci ha abituati il (per quanto bizzarro) bipolarismo italiano. Che piaccia o no quella è una stagione tramontata e non ha senso pensare ad un partito che nasca per essere la “stampella” di un Pd che non ce la fa da solo a costruire l’alternativa. Non può essere rimessa al Pd la decisione se “promuovere” o meno un soggetto “libdem”, quasi che fossimo ancora al tempo in cui, nel centro sinistra “col trattino”, alla “sinistra” spetta il compito di guidare il processo e ai “libdem” della coalizione quello di fungere da “acchiappavoti” dei moderati.
Condividiamo, quindi, il giudizio di chi dice (Alessandro De Nicola) che un’operazione simile, degna del “partito contadino” della Polonia o del “partito liberaldemocratico” della Ddr in epoca antecedente la caduta del muro di Berlino, verrebbe sbeffeggiata da quegli elettori liberali, democratici e riformisti che non hanno alcuna intenzione di cedere alle lusinghe della destra leghista e nazional sovranista, ma che non si fidano della capacità di questo Pd, sempre ambiguo sul fronte di un moderno riformismo, di governare il cambiamento. Essere opposizione ed essere capaci di costruire l’alternativa sono, infatti, due cose molto diverse.
Certo, anche noi avremmo voluto perseverare nell’esperimento maggioritario, il solo sistema capace di alimentare la “vocazione maggioritaria” del Pd. E restiamo dell’opinione che l’introduzione del sistema semi-presidenziale francese (che anche nella scorsa legislatura abbiamo proposto con un disegno di legge) dovrebbe essere il primo punto programmatico dell’oggi, come in passato aveva fatto l’Ulivo con il maggioritario. Ma è stato proprio l’abbandono del radicalismo riformista del Pd renziano, “nuovo centro” rispetto a una destra sempre più estrema e a una sinistra rinchiusa nel recinto delle proprie ataviche certezze, a riportare l’Italia al proporzionalismo ed è stata l’ambiguità del Pd sulle politiche riformiste, mai portate sino in fondo (dal Ceta al Jobs act, dalla cancellazione dei voucher alla rinuncia sullo Ius soli; alla “non” riforma della giustizia, per paura di non toccare gli interessi piuttosto che l’indipendenza dell’ordine giudiziario; dalla spaccatura sulla riforma costituzionale al mancato rientro da un debito spaventoso o, ultimo caso, il voto a favore della mozione sui minibot), a instillare la convinzione di un Pd non più in grado di recuperare quel ruolo centrale che Lei, caro direttore, ha richiamato nel suo fondo del 14 u.s. Il fatto è che in questi anni, nonostante quel che dice Calenda – e cioè che le differenze tra liberali, popolari e socialdemocratici si sono assottigliate – dentro al Pd (il richiamo a Berlinguer da parte di Zingaretti a questo proposito è illuminante), per il “corpo” del partito, alcune grandi questioni (che riguardano quei contenuti, quelle politiche, quelle scelte dietro alle quali sta il futuro del nostro Paese, in Europa e nel mondo), sono ancora irrisolte. Ed è proprio sui contenuti, sulle “policies”, che c’è un vuoto da riempire (che questo Pd non vuole riempire), perché in un sistema proporzionale l’appello all’unità di tutti coloro che sono solo “contro qualcuno e qualcosa” (ieri Berlusconi, poi il M5S e oggi la destra nazional sovranista) lascia per strada elettori e idee che, invece, devono poter trovare rappresentanza politica e istituzionale. Oggi, in questo Pd, si può fare la minoranza libdem, ma è impensabile dare vera voce a quelle istanze libdem che oggi in Italia non sono rappresentate. Cosa resta in questo Pd della parte migliore della stagione renziana? Dove sono le idee dei Salvati, dei Morando, degli Ichino?
La necessità di un nuovo soggetto politico, troppo sbrigativamente indicato come “centro”, che possa e debba recuperare non l’immobilismo del tramonto della “prima Repubblica”, ma semmai la vocazione riformatrice del centrismo degasperiano e la sensibilità sociale del primo centro sinistra, non si sentirebbe se su quel che conta davvero, sugli ideali di fondo, e non tanto sulla “gestione” il Pd fosse davvero contendibile. Altro che Berlinguer!
D’altra parte non era forse all’insegna del “nuovo centro” che Gerhard Schroeder avviava, con Joschka Fischer, le riforme nella Germania di fine secolo scorso? Non ci rassegniamo a considerare quella stagione come l’avvio di una “deriva neoliberista” (usiamo il linguaggio prevalente nel Pd per indicare quel periodo, che è spesso riecheggiato in campagna elettorale per evidenziare la differenza tra il renzismo e il nuovo corso zingarettiano) quando, invece, quelle politiche riformiste, sul piano planetario, hanno sottratto alla povertà due miliardi di persone e avviato, certo con contraddizioni (come avviene sempre durante le grandi trasformazioni), una nuova era: quella digitale. Questo “nuovo centro”, propulsore di riforme volte a favorire la crescita nel rispetto dell’ambiente, consapevole che la ricchezza va prodotta prima di essere distribuita, convinto che sul debito non si possa fondare alcuna prospettiva solida, sostenitore dell’integrazione europea, solidale con un’occidente che torni ad essere alfiere dei diritti civili e dei doveri verso gli altri e di un’Europa protagonista sullo scacchiere mondiale, in primis in Africa e Medio Oriente, può proporsi quale soggetto di equilibrio e di governo del nostro sistema costituzionale. A patto che questo nuovo soggetto non nasca come “stampella”, sappia essere autonomo e non sia subalterno a nessuno, avendo come unica discriminante per le alleanze che inevitabilmente dovrà perseguire in sede parlamentare quella dei valori costituzionali fondanti della nostra Repubblica e programmi economico-sociali che non ne contraddicano la costituency. Così definito, questo “nuovo centro” non potrà essere né una costola libdem dentro a un partito di sinistra (esperimento già tentato e molto malriuscito) né un partito orgogliosamente “minoritario”, radicalmente “identitario” come è stato percepito il pur generoso tentativo di +Europa, ma dovrà essere capace di coniugare la propria connotazione plurale con un coraggioso programma riformatore. Si tratta di una fantasticheria, della riedizione del “romanzo centrista”? Può essere. Intanto però la scissione vera e non “farlocca” l’hanno fatta i 5 milioni di elettori che non hanno più votato Pd tra il 2014 e il 2019 (passando per il 2018). E non si dia la “colpa” alla fuga verso il M5S perché questi ultimi hanno preso più o meno oggi gli stessi voti del 2014. Il “travaso” di elettori ha portato 5 milioni di persone a non votare più Pd e 5 milioni di persone in più a votare le forze di destra; pressoché invariato il M5S rispetto al 2014. Qualcosa questo vorrà pur dire. Non crediamo che tutto ciò possa essere recuperato partendo dal Pd così com’è combinato e costruendo la corrente libdem dal di dentro. Si tratta, come sempre, di andare più in là dell’orizzonte. Ma, come dice un celebre poeta inglese, “non è tardi per scoprire un mondo nuovo”.