Nicola Zingaretti (foto LaPresse)

Il fantasma del centro

Umberto Minopoli

Il partito di Renzi non ci sarà, quello di Calenda non ha senso. Il tema è Zingaretti: affrontiamolo

Un fantasma si aggira per l’Italia: il partito di Renzi. Il succitato non ha mai alluso ad esso. Neppure nelle sconfitte più dure degli ultimi tre anni. Eppure di esso soltanto si parla. Ogni contingente occasione (per ultimo, il caso Lotti o il varo della segreteria Pd) è usata per evocarne, finalmente, l’avvento. Non se ne farà nulla, neanche stavolta. Perché non ha alcun senso. Non è mai stata l’intenzione di Renzi. E non lo sarà in futuro. E’ giusto così. Ci si faccia, finalmente, una ragione. Di recente una versione, ancora più discutibile, del partito di Renzi o del “partito che non c’è” – liberale, europeista, moderato – è stata proposta da Calenda. Che parte da un ragionamento non peregrino: questo Pd è solo, insufficiente per essere competitivo. Avrebbe bisogno, sostiene Calenda, di forze con cui allearsi. A sinistra, ha ragione, c’è il deserto. Un vicolo cieco e vuoto di elettori. La vera prateria starebbe a destra del Pd.

 

Calenda ha proposto di fare d’accordo con Zingaretti una lista autonoma che raccolga liberali e moderati, ma alleata del Pd. Il presupposto di principio (“il Pd è troppo solo”) non è sbagliato. La soluzione immaginata da Calenda, un nuovo partito, certamente sì. Intanto siamo onesti: né + Europa (che dovrebbe fare una riflessione sulla sconfitta) né lo stesso Calenda (Siamo Europei ha ottenuto un buon successo tra gli elettori del Pd, non fuori del Pd) sono riusciti a mobilitare elettori moderati, liberali, centristi fuori dell’area che già oggi sta nel centrosinistra (e che, tutta insieme, sta al 24 per cento con il centrodestra al 50). Di che parliamo? Che cambierebbe con una operazione cosmetica, di maquillage interna a coloro che già oggi si dicono liberali e moderati ma che stanno nel centrosinistra? Il problema del centro è oggi in Italia un fondamentale problema politico, una criticità di sistema. Non un problema solo elettorale del Pd. Il fatto che abbiamo una Lega oltre il 34 per cento, con gli alleati (a seconda, di chi sceglie, al 60 per cento e più o al 50 per cento e più) e il Pd (con tutti gli alleati) al 24 per cento, è un’anomalia immensa. Altro che bipolarismo di cui, oniricamente e senza senso dell’humour, parlano i dirigenti del Pd. Il problema di “sistema” è che tra la Lega e il Pd non c’è una formazione adatta, di equilibrio e bilanciamento del sistema: FI era vocata ad esserlo ma si sta suicidando; I 5s sono estremisti e inadatti a fare da “centro”. E più perdono, più si radicalizzano. Per loro c’è solo la prospettiva auspicabile dell’irrilevanza.

 

Tra la Lega e il Pd c’è un bacino potenziale, sulla carta, di almeno un 20 per cento di elettori che oggi mancano all’appello. E che non votano questo Pd ma, tanto meno, i piccoli partitini o gruppi di testimonianza liberale. Il “centro” declinato così, evidentemente, non interessa i centristi. Sembra solo una redistribuzione di quote azionarie di un capitale esiguo e infruttifero: il centrosinistra attuale. Sarebbe più produttiva un’altra strada: prestare attenzione, intanto, a quello che succede in Forza Italia più che alle paturnie tra i 5 Stelle. E, per il Pd, ritornare alla vocazione maggioritaria: bersaglio polemico di Zingaretti col suo concetto di “campo largo”. Risultato, alle elezioni, poco campo e piuttosto stretto. Renzi sperimentò, con successo, la vocazione maggioritaria nel 2014 e nel 2016. Forse, il Pd avrebbe potuto replicarla, con qualche innovazione, nel 2018. E’ l’idea di un Pd che non si autoconfina nell’elettorato di centrosinistra, che targhetta elettori moderati, liberali, di buon senso, impauriti dall’estremismo al governo e dalla decrescita, ragionevoli e ansiosi di messaggi e ricette convincenti: ottimismo, riformismo responsabile, promesse realistiche e non demagogiche.

 

Partito della nazione perché di buon senso. Nel 2014 funzionò. La Lega dimostra che la mobilità elettorale è amplissima. Non ci sono steccati per il Pd. Non si inseguano idee farlocche di nuovi partiti. Si punti a cambiare il Pd. Ad esempio: perché non aprire il Pd, direttamente, agli alleati liberali e moderati che già oggi ha? E perché Calenda, invece di vestire i panni di un ennesimo paciere un po’ ecumenico tra le diverse linee del Pd, non si dedica alla battaglia (indicata dai renziani) per reintrodurre la vocazione maggioritaria e cambiare la linea politica rinunciataria e nostalgica di Zingaretti? La vocazione maggioritaria non è, in sostanza, più vicina a quell’ipotesi di maggioranza antipopulista di cui Calenda parlò nel 2018? Quanto al “governo ombra”. Quale? Con Gentiloni e senza Renzi? Con Minniti o senza Minniti? Con chi vuole cancellare RdC e quota 100 per trovare risorse nel 2019 o con chi sostiene che il Jobs act e la riforma Fornero sono un misfatto? E sulla giustizia e le istituzioni: come si fa il governo ombra? E’ pronto il Pd a rilanciare il riformismo giudiziario? A slacciarsi dal correntismo della magistratura, a fare una scelta di valore tra il garantismo e il giustizialismo? Giachetti o Orlando nel governo ombra? E sull’ambiente: il ministro-ombra sarà sul modello consueto del copiatore del verdismo italiano (ideologico, declamatorio e tassaiolo) o, finalmente, si inizierà a parlare di ecologismo riformista, fatto di crescita, investimenti produttivi, tecnologia, e non di tasse, limiti, divieti e punizioni? Fossi in Calenda non mi preoccuperei di governi ombra varati senza aver sciolto le ambiguità del Pd su questi nodi.

Di più su questi argomenti: