“La storia dell'Italia corrotta” che non spiega niente della nostra storia
Sales e Melorio descrivono un'impotenza dilagante davanti alla corrosione dello stato
Per l’accumulazione, figura del discorso vecchia quanto la Bibbia, i dizionari di retorica accumulano, a loro volta, un bel po’ di sinonimi: dalla enumerazione alla frequentatio, dalla coacervatio al synathroismus. E poi ne distinguono le forme, a seconda che l’accumulazione sia sindetica o asindetica, subordinante o coordinante o addirittura caotica. Quella che accoglie nell’introduzione il lettore della “Storia dell’Italia corrotta”, di Isaia Sales e Simona Melorio (Rubbettino, pp. 320, € 19), caotica non è affatto: è sindetica e coordinante. E viene giù fitta e insistente come una pioggia monsonica. Comincia così: “Se dall’Unità d’Italia in poi tutte le istituzioni elettive e non sono state coinvolte in episodi di corruzione: re, capi di governo, ministri, parlamentari, presidenti di Provincia, presidenti di Regione, presidenti della Repubblica, sindaci, assessori comunali, assessori provinciali, assessori regionali, consiglieri regionali, consiglieri comunali, consiglieri di circoscrizione, consiglieri di quartieri, consiglieri provinciali, membri delle Comunità montane…”. Non crediate però che il diluvio finisca qui. Niente affatto: questo è solo l’inizio, siamo solo in cima alla prima delle quattro dense pagine in cui vengono snocciolati i più rilevanti episodi di corruzione che hanno segnato la storia d’Italia. E a essere coordinati asindeticamente nell’accumulo, stretti in uno stesso nodo, sono altri 25 (in lettere: venticinque) “se”: se questo e se quello. Se le società, pubbliche e private, se i manager, pubblici e privati, se i grandi gruppi, se le grandi opere, se i concorsi, se i partiti, se le professioni, se le banche, se la magistratura. Eccetera eccetera. E il “se” di Sales e Melorio non serve per introdurre dubbi, ipotesi o eventualità. Si tratta, in realtà, di un altro, martellante espediente retorico che chiede di essere letto come un “se è vero, come è vero, che”, ripetuto ossessivamente, come un rosario, come una giaculatoria, per arrivare col fiato strozzato alla conclusione, confitta coi 25 (in lettere: venticinque) chiodi dell’elenco. Eccola: “Come si può pensare allora che la corruzione non sia un dato capillare, un elemento di lunga durata della storia italiana, un problema del nostro stato nazione?”.
Non si può. La corruzione è, anzi, “un elemento connaturato al senso prevalente dello stato che si è affermato lungo tutta la storia della costruzione della nazione”. Connaturato è, ovviamente, la parola chiave. Quella che consente di ricordare le polemiche suscitate dall’allora presidente della commissione Antimafia, Rosy Bindi, quando, limitando il suo giudizio a Napoli, disse nel 2015 che “la camorra è un dato costitutivo della città partenopea”. La tesi di Sales e Melorio è che, parimenti, la corruzione è costitutiva dello stato italiano. Con la sfumatura di un quasi-sinonimo, che però consuona perfettamente con corruzione. Scrivono: “La corrosione dello stato italiano, paradossalmente, ha la stessa età della sua fondazione”. E d’altronde, l’elenco non parla chiaro, più di una genealogia veterotestamentaria, o di una sbalorditiva enciclopedia barocca? La corruzione è costitutiva. E’ fisiologia, non patologia. E’ strumento di governo, è regola del gioco, è fenomeno simbiotico. Tutto vi concorre e nessuno è risparmiato: le mafie, naturalmente, ma anche la religione cattolica, la partitocrazia, il trasformismo storico, la burocrazia clientelare e perfino la caduta morale degli ex comunisti, che nel trapasso verso la seconda Repubblica, si sono ignominiosamente liberati del fardello dei vecchi ideali (Sales viene dal Pci, e gli è rimasto un groppo di amarezza in gola).
Tanto è chiara la cosa, che gli autori avvertono fin dall’introduzione che non intendono “misurare il grado di corruzione, né fare un parallelo con gli altri paesi d’Europa”: non c’è bisogno, non è questo il punto, i numeri non servono più di tanto. E se l’Eurispes avverte, presentando a inizio di quest’anno una vasta ricerca sulla corruzione percepita, che l’Italia pare affetta dalla sindrome del Botswana, perché nelle graduatorie internazionali sulla corruzione finisce sistematicamente per collocarsi da quelle parti lì, cioè in posizioni molto più basse di quelle che spetterebbero a un paese solidamente democratico, che si colloca tra i primi dieci al mondo per pil pro capite, e ci finisce, da quelle parti, per via di una percezione del fenomeno che lo mette al fianco di paesi del Terzo mondo, la cui statualità è quasi evanescente, beh, non importa: Sales e Melorio non fanno nulla per diminuire la distanza fra realtà e rappresentazione.
Dopodiché ci sta pure che uno discetti in lungo e in largo sulla debolezza dell’ordinamento statale italiano, per spiegare il carattere endemico della corruzione. Rimane il fatto, però, che con la corruzione e il suo carattere endemico non si spiega quasi nulla della storia italiana: non si spiega né il fascismo né la democrazia, né la scelta atlantica né il terrorismo, non il miracolo economico e neppure le mafie. E allora a cosa serve questa percussiva “Storia dell’Italia corrotta”?