Non ricominciamo con l'antifascismo militante
Sciogliere CasaPound? L’Anpi e il Pd dovrebbero ripensare ai guasti di una tendenza che ha solo rincarato la dose di intollerante disprezzo del nemico inoculata dalle ideologie della violenza politica
I ragazzi non sanno che cosa è stato l’antifascismo militante, e ora gli viene ripresentato con lo scioglimento di CasaPound proposto dall’Anpi e altri: un incubo. C’è stata un’Italia, negli anni Settanta, nella quale l’appello allo scioglimento del Msi, formulato magari con le migliori intenzioni da magistrati e intellettuali laici della tendenza azionista, e seguita dai gruppi estremisti di vario conio, ha fatto molti danni e non riscattabili alle persone, alle idee, all’identità dei progressisti e degli stessi antifascisti, che allora erano un vero esercito di testimoni diretti, non i loro eredi. Non si può decentemente essere contrari a un conflitto di assoluti, quando si parla di fascismo in un paese che lo ha subito per vent’anni e si è ricostruito, certo nella dissimulazione e nell’ipocrisia, anche, come nazione costituzionale antifascista. Ma uno scontro di idee e di educazione morale, oltre che di custodia della legalità contro ogni tipo di violenza e di sfida parasquadristica, è storicamente giustificato, mentre la filastrocca sloganistica dell’esclusione per principio contro avversari politici che coltivano memorie e programmi desunti in qualche modo dal Ventennio, questo, che è poi il succo del cosiddetto antifascismo militante, è un percorso capace di portare a una controviolenza luttuosa, incompatibile con il tenore liberale e democratico della società italiana, e non c’è legge Scelba o disposizione transitoria che tengano. Si comincia con la messa fuorilegge delle organizzazioni nere e si finisce con le sprangate, i roghi, il castigo dei puri e duri conduce al delitto. Una sequenza da brivido.
L’Associazione partigiani e il Pd dovrebbero ripensare con serietà e umanità ai guasti di una tendenza che ha solo rincarato la dose di intollerante disprezzo del nemico inoculata dalle ideologie della violenza politica nel bel mezzo della formazione di diverse generazioni politiche, dove “camerata basco nero / il tuo posto è il cimitero” è fratello gemello di “Msi fuorilegge / a morte chi lo paga e lo protegge”. Oltre tutto l’antifascismo militante fu la copertura di un guasto psicologico e di visione, di intelligenza lucida delle cose. La premessa era la complicità dello stato, lo stragismo impunito come responsabilità della classe dirigente che aveva tradito Repubblica e Resistenza, e altre follie nelle quali si rivelò chiara e rocciosa una pasoliniana presunzione di colpevolezza del paese sporco, programmaticamente e orgogliosamente “senza prove”, apparentata naturalmente alle insidie e ai fatti del terrorismo politico, la poco eroica pretesa di risolvere la faccenda sparacchiando, uccidendo, gambizzando, sequestrando, incendiando e così umiliando il ruolo dei sindacati e dei partiti repubblicani costretti a un indecente inseguimento, quando non orientati al contrasto, di una allucinazione collettiva che correva, correva e si spandeva in quel decennio maledetto.
La legalità, e solo la legalità. E per il resto l’isolamento, la formazione politica e storica, il conflitto di idee: oltre questi orizzonti c’è solo la vena di follia che ha inoculato sangue e miseria nell’esperienza politica e etica di un paese vulnerabile, confuso e vendicativo. Purtroppo la messa fuorilegge fu il tessuto connettivo di questa caccia all’uomo travestita da aspirazione al repulisti. I vecchi partiti e gli apparati di stato avevano delle responsabilità nelle offese al quadro democratico e costituzionale, nella tolleranza e in qualche caso nell’uso strumentale della minaccia fascista, ma nella sostanza furono estranei e contrari a questa ondata di civismo violento e furente che travolse menti arruffate, organizzazioni esposte al rischio della strumentalizzazione e del delirio collettivo. Non ricominciamo.
L'editoriale dell'elefantino