Il governo che promette di tagliare la spesa pubblica ha già eliminato le forbici
Un altro guaio per la manovra. A nove mesi dall’annuncio, a Palazzo Chigi non c’è alcuna struttura deputata alla revisione della spesa. Il bluff di Castelli
Roma. Erano in disaccordo solo sul nome. “Team mani di forbice”, lo chiamava Luigi Di Maio. “Taglia-forbici”, lo ribattezzava, con una variante più fantasiosa, Giuseppe Conte. Ma sul fatto che dovesse ridurre “miliardi” di spesa improduttiva, su questo erano in perfetta sintonia. “Quando nasce? Ora”, diceva categorico il vicepremier grillino, incassando il plauso del suo collega Matteo Salvini. Era il settembre 2018. “Partiremo con la task force prima di attuare tagli automatici”, garantiva il premier a novembre, quando gli si chiedeva del rischio di sforbiciate automatiche previste col congelamento dei fondi ministeriali per due miliardi. E invece, ora che quegli accantonamenti si sono trasformati in tagli veri e propri, come un anticipo di austerity camuffato, di spending review non si parla neppure, all’interno dell’esecutivo grilloleghista. Cosa in fondo non troppa nuova, sotto il cielo della politica italiana: sennonché il “governo del cambiamento” riesce, anche in questo, ad aggiungere quel tocco di surrealtà che lo contraddistingue, fino ad arrivare a litigare perfino su come, e su dove, istituire questo fantomatico “team”. “E’ una struttura che abbiamo insediato presso la presidenza del Consiglio”, sentenziava Conte, parlando come di cosa già fatta, a novembre 2018. E invece oggi, sotto la diretta guida di Palazzo Chigi, non c’è alcuna struttura deputata alla revisione della spesa. “Ci ha pensato Laura Castelli”, è la versione ufficiale fornita dallo staff del premier. E’ stata la viceministro dell’Economia, insieme al suo staff, che si è incaricata negli ultimi mesi di aggredire le fatidiche “pieghe del bilancio”. E ora, pare, il lavoro da lei avviato verrà ereditato da un “tavolo” che andrà istituito a Chigi in vista della prossima manovra. Ma non doveva essere già operativo a novembre?
Doveva, certo, ma poi qualcosa deve essere andato storto. Altrimenti non si spiega come mai, se sette mesi fa si usava il tempo passato, oggi nel governo si ricorra al futuro per parlare del costituendo trust di sforbiciatori: “Palazzo Chigi – spiegano i collaboratori di Conte – coordinerà il lavoro di revisione della spesa in uno degli otto tavoli operativi della manovra”, quello appunto dedicato alla spending review. Che, nei tempi neanche troppo remoti in cui Lega e M5s erano all’opposizione, risultava un tema assai gradito ai rispettivi leader: e non a caso entrambi arrivarono a glorificare Carlo Cottarelli. “Il Commissario alla spending review critica il governo che spende quello che non ha, e Renzi come risponde? ‘Fa niente, andremo avanti anche senza di lui’. Altro fallimento, Renzi continua a perdere colpi... Sarebbe quasi divertente, non fosse che con lui anche l’economia sta andando in vacca”. Così scriveva su Facebook, nel luglio 2014, Salvini. Di Maio, invece, si spinse fino ad adottare le ricette di Cottarelli nella campagna elettorale del 2018, promettendo di attuare quel programma (salvo poi dimostrare di non averlo neppure letto, visto che parlava di tagli alla pubblica istruzione che nel programma di Cottarelli non c’erano neppure). “Qui, anziché tagliare la spesa, si continua a tagliare i commissari alla spesa”, diceva Salvini. E forse è anche per questo che stavolta si è scelto di non nominarli neppure. E così, a metà aprile, in un Consiglio dei ministri straordinario svoltosi a Reggio Calabria, approfittando dell’assenza di Giovanni Tria si decise di affidare le deleghe per la spending review ai due vice del ministro dell’Economia: la grillina Castelli e il leghista Massimo Garavaglia. Un blitz che fece infuriare Tria, che dunque pretese la revoca immediata dell’incarico. E così, anche in questo il “governo del cambiamento” ha finito col distinguersi: con lo stabilire il nuovo record di durata minima dell’incarico di commissario alle spending, che Garavaglia e la Castelli mantennero ufficialmente per dieci giorni appena. Nel frattempo, ridurre la spesa pubblica, specie quella improduttiva, sarebbe l’unica soluzione ragionevole per il governo. E ad ammetterlo, nei giorni scorsi, è stato lo stesso Tria che, alle prese con la trattativa con Bruxelles sulla procedura d’infrazione, raschia il fondo del barile, raccattando gli extra utili di Cdp e i dividendi di Banca d’Italia. Mosse che sanno di disperazione, ma che soprattutto non bastano a rassicurare i tecnici della Commissione europea, che guardano con preoccupazione al saldo strutturale dell’Italia, e non alle misure una tantum. Bisognerebbe tagliare, dunque, e farlo in maniera oculata ma decisa. E invece, dopo un anno di governo, non si conosce neppure chi debba attuarla, questa spending review.