C'è un cambiamento nel governo del cambiamento: i tecnici al comando
Conte, Moavero, Tria, il sostegno del Quirinale. Dove porta la pista (precaria) del commissariamento soft del populismo
Roma. Il dubbio instillato nei conciliaboli tra i ministri leghisti pare sia stato propalato da Giancarlo Giorgetti: “E se il governo tecnico ce l’avessero già imposto, senza dircelo?”. Il che ovviamente, alle orecchie degli alti dirigenti del Carroccio, suonava un po’ come una beffa: perché in fondo è stato proprio per scongiurare il rischio di un esecutivo scelto dal Quirinale, una soluzione à la Monti o à la Cottarelli, che Matteo Salvini non si è mai deciso a rompere l’alleanza col M5s, né prima né dopo le europee, sempre in preda alle paranoie del complotto ai suoi danni. E ora, invece, all’indomani della risoluzione – momentanea – del contenzioso tra Roma e Bruxelles sui conti pubblici italiani, quell’esito potrebbe essersi in parte verificato, seppure in forma più grottesca e più ridicola, come del resto si confà a questa stagione politica.
Nel quartier generale del Carroccio hanno iniziato a sospettarlo nella mattinata di martedì, quando le comunicazioni con Giuseppe Conte si sono drasticamente interrotte: e sia della bocciatura della bulgara Kristalina Georgieva – un nome già vagliato dai gialloverdi alla vigilia del Consiglio europeo come possibile presidente della Commissione, un nome che il premier italiano sembrava dovere supportare e che ha invece contribuito ad affondare – sia dell’avanzamento delle trattative sulla procedura d’infrazione, Salvini e soci sono stati costretti a informarsi attraverso le agenzie stampa, come gli ultimi degli spettatori.
Da un lato Conte, dall’altro Giovanni Tria, agivano con un’autonomia che sembrava perfino eccessiva; e nel mezzo Enzo Moavero Milanesi, guardato con sempre maggiore sospetto da grillini e leghisti, che conduceva intanto trattative parallele anche – e soprattutto – per promuovere la propria candidatura a commissario europeo. Non è stata casuale, infatti, la risolutezza con cui Salvini ha fatto sapere di preferire una nomina interna alla Lega, come membro italiano nell’esecutivo comunitario: perché, di fatto, non si fiderebbe di nessun altro se non di Giorgetti, il quale però nutre sempre maggiori dubbi al riguardo e che, un po’ scherzando e un po’ no, ripete che “piuttosto torno a fare il deputato semplice”. E alla luce di queste stesse angosce si spiega anche l’ansia con cui Salvini sta invocando la nomina del ministro per gli Affari europei: il segretario del Carroccio vuole avere occhi e orecchie nelle stanze di Bruxelles, dove si discutono gli accordi che contano, e ha vissuto con una agitazione crescente la fermezza con cui Conte ha preteso di rimandare a lungo la designazione del successore di Paolo Savona. “Finché c’è da gestire la procedura d’infrazione – ripeteva il premier – terrò io le deleghe, perché è bene parlare con una voce sola”.
E però quella voce, Salvini lo sapeva bene, non era affatto quella della Lega. Di qui, mettendo in fila gli indizi, è maturata la convinzione dei dirigenti del Carroccio: “Conte gioca in proprio, e attraverso lui l’Europa ci ha commissariato: è una specie di nuovo Monti”. D’altronde, se è vero che finora si è garantito una sopravvivenza politica facendo il vice dei suoi vice, è altrettanto vero che “l’avvocato del popolo” potrebbe guadagnarsi ora una più stabile legittimazione ponendosi come il mediatore tra le richieste europee e la riottosità grilloleghista ad accoglierle, specie dopo che la finestra elettorale di settembre si sarà chiusa. Convinzione, questa, che comincia a maturare anche nello staff di Luigi Di Maio, che registra una distanza crescente del premier dalle posizioni più marcatamente grilline. “Cerca di guadagnarsi un suo spazio, di apparire neutrale”, dicono i fedelissimi del ministro dello Sviluppo. Il sospetto condiviso è insomma che Conte, e con lui Tria e Moavero, abbiano dato alle cancellerie francese e tedesca molte più garanzie di quelle effettivamente emerse: sia sui conti della prossima manovra, sia sulla politica estera, sia sulle nomine che dovranno essere fatte, la prossima primavera, per rinnovare i vertici di tutte le principali partecipate di stato.