Ahi: la Lega ha perso il lume della Regione
L’isolamento, l’immobilismo, il commissario. Perché all’Italia serve un’altra Lega che mostri a Salvini i confini che un capo di partito non può superare, per evitare che l’interesse di una leadership diventi un grave ostacolo all’interesse nazionale
Tra i molti spunti di riflessione suggeriti dalla scelta di Matteo Salvini di non votare in Europa, al contrario del Movimento 5 stelle, il nuovo presidente della Commissione, la tedesca Ursula von der Leyen, quello forse più interessante riguarda una domanda destinata ad avere sempre più centralità all’interno del dibattito pubblico italiano. La domanda ha a che fare con l’identità della Lega e con una questione politica da cui dipende il destino dell’Italia e la possibilità che il nostro paese possa giocare un ruolo non del tutto marginale all’interno della nuova legislatura europea: ma la leggenda della Lega che a differenza dei suoi cugini populisti avrebbe l’innata capacità di usare la sua classe dirigente regionale per essere di lotta ma anche di governo è una leggenda, e dunque un’invenzione, o è qualcosa che corrisponde a un qualche fatto reale?
Se dovessimo giudicare dai risultati ottenuti, potremmo dire senza paura di essere smentiti che in un anno e passa di governo la capacità mostrata dal partito della ragione, e della regione, di incidere sulla traiettoria della Lega salviniana corrisponde a un numero molto vicino allo zero. La Lega, immigrazione a parte, era arrivata al governo con l’idea di far contare di più l’Italia in Europa, con l’idea di accelerare il processo dell’autonomia, con l’idea di abbassare le tasse, con l’idea di dare agli imprenditori strumenti utili a migliorare la competitività delle imprese ma nel giro di un anno nulla di tutto ciò è stato fatto. L’autonomia, da ormai cinque mesi, è bloccata in Parlamento e il capogruppo della Lega Riccardo Molinari ieri ha ricordato al ministro Barbara Lezzi che “senza l’autonomia il governo non c’è più”. La pressione fiscale nell’ultimo anno piuttosto che diminuire è aumentata, dopo essere lentamente scesa per anni. Le imprese, piuttosto che essere aiutate, sono state messe in difficoltà da un governo che ha reso l’Italia un paese meno affidabile. E in Europa, la Lega, che millantava un’egemonia all’interno del nuovo Parlamento, è stata messa in un angolino persino dai suoi compagni di avventura, al punto che l’odiata Ursula von der Leyen è stata votata tanto dai compari di governo del M5s quanto dai deputati del caro amico Viktor Orbán.
La logica del leader della Lega non è inspiegabile ed è evidente che un politico che si ritrova in uno stato di estasi determinato da una droga chiamata consenso tende a muoversi affinché nulla possa essere da ostacolo all’ebbrezza veicolata da un’infinita campagna elettorale. Ma se esistesse davvero, all’interno della Lega, un fronte politico con la testa sulle spalle, convinto che sia inaccettabile far crescere i consensi di un partito a discapito della crescita del paese, quel fronte, mai come in questo momento, avrebbe il dovere di esibire i muscoli, di dimostrare la propria esistenza, di manifestare il proprio dissenso e di indicare al proprio leader quali sono i confini che un capo di partito non può superare per evitare che l’interesse di una leadership diventi un ostacolo all’interesse nazionale. I muscoli andrebbero naturalmente mostrati per convincere Salvini a porre fine a un governo pericoloso, dannoso e immobile, che mette ogni giorno a dura prova la capacità di resistenza che grazie al cielo ha il tessuto produttivo del nostro paese.
Ma i muscoli andrebbero prima di tutto mostrati per spiegare a Salvini che trasformare la partita del commissario europeo in un altro tassello della propria campagna elettorale è un rischio che l’Italia di oggi forse non si può permettere. La linea del governo italiano, esplicitata anche ieri da Giuseppe Conte, è quella di lasciare alla Lega il compito di indicare il candidato commissario. Ma il voto contrario, condito da dichiarazioni ostili, offerto a Ursula von der Leyen complica di molto la missione tanto della Lega quanto del governo. I commissari vengono scelti dal presidente della Commissione, d’intesa con i governi nazionali, ma una volta scelti devono affrontare due passaggi non privi di criticità.
Il primo passaggio è quello effettuato da ciascun commissario all’interno della commissione parlamentare di riferimento, il secondo passaggio è quello che la presidente della Commissione fa in Parlamento dopo le audizioni dei singoli commissari. Nel primo caso, i commissari vengono valutati dalla commissione parlamentare di riferimento, il cui parere non è tecnicamente vincolante. Nel secondo caso, i commissari vengono votati dall’intero Parlamento europeo con voto palese e nominale e a maggioranza semplice, in un unico pacchetto presentato dalla presidente della Commissione e non ci vuole molto a capire che una presidente di Commissione che non gode di una maggioranza schiacciante non si presenterà in Parlamento con commissari in aperto contrasto con la natura della maggioranza parlamentare.
La tutela dell’interesse nazionale, mai come oggi, consiglierebbe alla Lega di puntare su un candidato trasversale e non connotato politicamente, per dare all’Italia la possibilità di contare qualcosa in Europa. La tutela dell’interesse di partito consiglierebbe invece alla Lega di puntare su un candidato identitario, la cui bocciatura potrebbe essere persino messa in conto, nell’ottica di una futura e forse non lontana campagna elettorale violentemente antieuropeista. Il partito della ragione oggi si trova di fronte a questa scelta: infilare la testa sotto la sabbia come finora ha fatto spesso o battere un colpo per evitare che lo stato di grazia di un leader possa coincidere sempre di più con uno stato in disgrazia per l’Italia.