Torino e gli spiriti del no
Una città con molti spettri che sta perdendo tutto. E il furore dei probi ora spaventa anche l’Appendino
Lo spettro in più, evocato e collettivo, vaga da tredici anni per le menti di Torino. Il suo ectoplasma s’è rinvigorito succhiando le aure conflittuali della Sala Rossa, dove s’è consumato l’ultimo dramma interno ai Cinque stelle con la requisitoria del sindaco Chiara Appendino per il ritiro delle deleghe al suo vice Guido Montanari. Lo spettro in più sono quelle Olimpiadi invernali del 2006, che illusero Torino di avere superato, forse per sempre, il genetico understatement di una città bellissima però incapace di vendere se stessa, creatrice di primati ceduti inevitabilmente ad altri.
Città stanca non tanto della maggioranza che l’amministra da tre anni, quanto di un atteggiamento nemico irriducibile del buon senso
Alla perdita, e non è la prima volta, del Salone dell’Auto a favore di Milano, alla perdita delle Olimpiadi invernali del 2026, alla rischiata perdita del Salone del libro s’accompagna una perdita della pazienza che trascende pure la politica. Torino non s’è tanto stancata della maggioranza che l’amministra da tre anni, quanto di un atteggiamento ispirato a un furor paradigmatico irriducibile nemico del buon senso. Un furor che per definizione affila la lama su cose grandi e piccole fino ai chioschetti nel Parco del Valentino – che Montanari s’augurava flagellato dalla grandine quando ospitò l’ultimo Salone dell’Auto – e lancia i droni in cielo anziché i fuochi d’artificio per la festa di San Giovanni Battista.
L’esagerazione dei probi comincia a spaventare la stessa sindaca Appendino, ed è curioso – anzi significativo – che in questa circostanza la città orfana dell’auto ripeschi dall’inconscio metafore automobilistiche. “Non posso continuare con il freno a mano tirato” ha sbottato la sindaca motivando la decapitazione del cittadino Montanari. “Guidare una città è un po’ come guidare un’auto: se dai una sterzata improvvisa non governi più la vettura” ha commentato il presidente di Confartigianato Torino, Dino De Santis, il quale vede nella rigidità dell’amministrazione “più un problema di persone che di bandiere”. E sempre l’auto ricorre in un’altra grossa questione divisiva, la querelle sul progetto di Ztl allargata per cui i comitati contrari, appoggiati dalla Lega, sono intenzionati a proporre un referendum abrogativo.
Al furor del No manca l’ars dell’ascolto: “Bisogna dialogare con le diverse anime della città, a partire dal tema della Ztl centrale su cui bisogna aprire una discussione, ritornare insomma a quello che Torino ha saputo fare in passato”, s’è lamentata la presidente dell’Ascom Confcommercio, Maria Luisa Coppa.
C’è sempre un’eccedenza di passato nel rigonfiamento di ogni presente malessere. C’è il passato della dinastia sabauda e della dinastia Agnelli, che fecero di Torino la reiterata capitale di qualcosa promettendo a ogni perdita una successiva conquista. Ci fu il primato della radio, della cultura, della moda, dell’editoria. Ci fu persino, ricordò Vittorio Messori, il primato delle bande organizzate di rapinatori con quella di Cavallero, trasferito come molti altri a Milano.
Luca Bianchini: “Dire no a tutto solo perché si ha paura, dire sempre di no esaspera persino noi disciplinati torinesi”
Chi arriva con l’egoismo del turista – Ztl o meno, Salone o non Salone dell’Auto – si gode Torino inseguendo irripetibili fantasmi. La pazzia di Nietzsche e le confessioni erotiche dell’adolescente Rousseau (proprio lui, non la piattaforma digitale grillina) che s’ambientarono in via Po, dove si può ancora ipotizzare quale sia, e se ci sia, il caffè in cui il principe di Lampedusa immaginò l’incontro col grecista professor La Ciura, per sempre amante della Sirena Lighea. L’eros turistico, il più spietato di tutti, se ne frega dell’Appendino e uscendo al mattino presto può immaginare in qualsiasi fruscio di ruote e pedali il giovane Primo Levi innamorato che sfila in bicicletta, come si descrisse nel Sistema periodico. Oppure bordeggiando il Valentino – nell’augurio che il savonaroliano flagello meteo di Montanari non s’avveri quel giorno – ci si può immaginare il sensitivo Gustavo Adolfo Rol che s’affaccia alla finestra e spiega la tremenda legge che lega il colore verde, la quinta musicale e il calore.
Un turista, ma forse anche molti fra i più di centomila ragazzi che l’hanno scelta per venirci a studiare, dirà sempre quant’è bella Torino e se è un turista napoletano (come chi scrive) amerà la Torino degli assenti, che in tutte le ex capitali spesso prevalgono per rivalsa sui vivi: chissà se resta traccia degli spiritisti di Vincenzo Scarpa, alias Niceforo Filatete, segretario di Cavour con cui credette di parlare anche dopo la morte del conte nelle serate al suo circolo medianico; chissà se s’è affacciata mai nella Sala Rossa l’ombra del grande spiritista del Risorgimento, Massimo D’Azeglio (il quale non disse: “Fatta l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani”; la vera frase fu: “I più pericolosi nemici d’Italia sono gl’Italiani… pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani”); chissà se nei meandri del suo museo s’aggira l’anima di Cesare Lombroso, che misurava i crani dei meridionali rilevando una insidiosa fossetta occipitale ma che fu, nello scorcio terminale della vita, persuaso dello spiritismo dalla medium pugliese e napoletana d’adozione Eusapia Palladino.
Un torinese, però. Un torinese vivo oggi non la può perdonare, alla giunta Appendino, questa perdita di tutto. Il suo spettro in più sono le Olimpiadi del 2006. Non Lombroso né le mummie del Museo Egizio. E la tremenda legge non risiede nel colore verde, nella quinta musicale e nel calore di Rol, ma nel No grandinatorio dei vari Montanari.
C’è il passato della dinastia sabauda e della dinastia Agnelli. Ci fu il primato della radio, della cultura, della moda, dell’editoria
“La buona fede dei governanti non si discute, tuttavia non basta. I Cinque stelle pagano la loro inesperienza oltre a qualche tossina delle passate amministrazioni. Sarebbe ora di dire basta ai non professionisti della politica”, si sfoga al telefono Piero Chiambretti, il quale – e non è proprio una boutade – propone “un talent per chi voglia fare il politico, con una giuria composta rigorosamente solo dagli ex, tanto vituperati esponenti della Prima Repubblica. Fare esperienza sulla pelle degli altri mi sembra troppo rischioso”. Come Virginia Raggi a Roma, la Appendino “ha scontato tantissimi dissapori interni, frutto proprio di quella inesperienza che l’ha portata a essere oggi il miglior sindaco di Milano, come recita una battuta diffusa sui social”. Chiambretti però non ce l’ha con i bauscia: “Milano come Roma è una metropoli con grandi aspettative e fa il suo mestiere, portando acqua al proprio mulino con uno spirito imprenditoriale che la pone quale vera capitale d’Italia. Certo non si può farle una colpa di questo”. Neanche dipende da Milano “la timidezza congenita dei torinesi doc, capaci di creare ma incapaci di difendere le proprie creazioni. Bisogna però riconquistare il ruolo che Torino aveva nel passato e che, fino alle Olimpiadi invernali del 2006, attrasse sulla città un indotto importante e migliaia di turisti. Quel risultato fu indubbiamente anche frutto degli Agnelli, che tanto diedero a Torino e tanto ne ricevettero”.
La città seppe reinventarsi dopo il declino della fabbrica dell’auto e dopo l’epopea operaia, di cui quasi tenere tracce immaginali restano – almeno per il turista – la pista aerea del Lingotto e il corso Unione Sovietica, con la surreale intitolazione a un Impero estinto, che sopravanza pure le pretese romane limitate a una descrittiva via dei Fori Imperiali e a un riduttivo viale Palmiro Togliatti.
Un torinese, però, non un turista, un torinese come lo scrittore Giuseppe Culicchia oggi è rammaricato per l’addio del Salone dell’Auto: “E’ una situazione surreale che mi posso spiegare solo con il masochismo intrinseco nella torinesità. C’è da un lato quasi la paura di essere troppo bravi e dall’altro il rovello di un confronto costante con gli altri. Per carità, nell’epoca del paradiso dei selfie il nostro understatement suona molto elegante, però se è parossistico diventa controproducente. Torino ha lo strano potere, non da adesso, di frenarsi da sola e dissipare le ricchezze di cui dovrebbe far tesoro”.
Fosse lui sindaco, Culicchia, le prime tre proposte che porterebbe in giunta sarebbero una mitica e due realistiche: innanzitutto l’abbattimento del Monte Turchino per aumentare la ventilazione di Torino; quindi la balneazione del Po, per recuperare il meraviglioso lungofiume dove illo tempore ci si bagnava veramente; infine un’ossigenazione finanziaria per le biblioteche civiche, “che già svolgono un gran lavoro non solo culturale ma di supplenza sociale, con volontari che animano corsi di informatica, lezioni di lingue e sportelli di consulenza gratuita in disparati settori”.
Se non si fa, si vive con gli spettri. Il dolce spettro del 2006, che spinge i torinesi a rievocare le fatidiche Olimpiadi momento di gloria, fino a chiedersi ciascuno dove fosse e cosa facesse mentre si tenevano i Giochi. E poi lo spettro acerbo del No a cinque stelle che ormai rende inclini alla rivolta: “Dire no a tutto solo perché si ha paura, dire sempre di no esaspera persino noi disciplinati torinesi”, dice lo scrittore Luca Bianchini: “No Tav, no Olimpiadi, no fuochi d’artificio, no drink ai Murazzi. No a tutto. Chiara Appendino si dovrebbe vergognare e avrebbe dovuto dimettersi prendendo atto della propria incapacità di governare. Non basta ritirare le deleghe a un vice sindaco. Queste persone stanno rovinando la città”.
Sicuro è che Torino, nei suoi alti e bassi, sconti quel tratto timido o magari snob del suo genoma, ma da questo a proibire gli spettacoli pirotecnici per rispetto agli animali, ne corre proprio: “Gli animali sono sempre sopravvissuti ai fuochi, mentre ora gli umani vedono i droni solo se si trovano in piazza e in una certa posizione. E’ come per la tragedia di piazza San Carlo – prosegue Bianchini – quando c’è scappato il morto nella finale di Champions del 2017. Da allora, invece di migliorare i dispositivi di sicurezza, nessuno va più in piazza. Prevale sempre la cultura del divieto, la furia del No che spinge a multare persino i vecchi chioschetti del Valentino, a proibire la fruizione di pezzi di città, insomma a rompere le scatole anche a una popolazione disciplinata e comprensiva come la nostra. Che però, quando non ne può più, fa sentire veramente la sua arrabbiatura”.
Persino Napoli, l’ex capitale conquistata, si lascia indietro Torino e ha chiuso il 14 luglio scorso le Universiadi 2019 all’insegna della Sirena mitologica nel “tutto esaurito” dello stadio San Paolo. Orgoglioso, nonché in groppa a un momento storico baciato dalle stelle, il sindaco Luigi de Magistris, convinto da subito che “Napoli ce la poteva fare” e così sovrabbondante nello spirito del Sì quanto la Appendino è impastoiata tra gli spiriti del No.
Alessandro Chetta, da Napoli a Torino: “Ha l’orgoglio lacerato delle ex capitali. L’altrove che le ruba cose belle è Milano”
E’ un paragone, quello fra due città incomparabili, che è bene fare almeno a scopo d’esercizio: nel 1860 la piccola Torino inghiottì Napoli come una sarda che divorasse un tonno. Oggi la foto della siringa di un tossico abbandonata nella Galleria San Federico fa notizia, laddove a Napoli la Galleria Umberto I ha accumulato un secolare inventario di cronaca nera (ma assieme a tante bellezze). Alessandro Chetta, a lungo cronista partenopeo, è approdato alla redazione torinese del Corriere della Sera meno di due anni fa e suggerisce la sua comparazione: “C’è una comunanza insospettabile con Napoli. Le città sembrano agli antipodi, ma sono quasi affratellate dall’orgoglio lacerato delle ex capitali. Torino a volte si percepisce vinta perché è stata vincitrice, però non è sconfitta. Nel ’900 seppe diventare, da borgo reale, industriale e operaia. Ora prova a ritrovare una strada nei servizi ma ci riesce parzialmente, perché una giunta comunale col No sempre in canna non aiuta. L’altrove che le ruba cose belle è Milano. Magari anche la Torino-Lione finiremo per chiamarla Milano-Lione, che è peraltro la denominazione più giusta”.
Chissà come la prendono, a Torino, la paterna esortazione dell’assessore all’Urbanistica milanese, Pierfrancesco Maran, che da Facebook esorta a non vedere la sua città come nemica ma “come un alleato nelle tante sfide difficili”. Chissà quel “Rialzati Torino!” se non sia più umiliante dello stereotipato “Milano ci ruba”.
Torna in mente il titolo che Ferdinando Petruccelli della Gattina, patriota lucano, giornalista e deputato postunitario, diede a un libro dedicato al parlamento di Torino capitale: I moribondi di Palazzo Carignano. Un’ipotetica, minore riedizione, I moribondi di Palazzo Civico, chi la potrebbe scrivere.