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Salvini e Di Maio, i litiganti complementari del governo populista

Claudio Cerasa

Figli del cappio di Mani Pulite, statalisti, eurofobici, illiberali e pericolosi. Altro che “bipolarismo populista”. Il problema del governo gialloverde non sono i dettagli che dividono i due vicepremier: il guaio è ciò che li unisce

La settimana politica che si è appena aperta sarà caratterizzata da un argomento preciso che, crisi o non crisi, avrà una sua centralità in ogni ragionamento relativo al futuro del governo: ok, ma quei due lì oggi su cosa si spaccheranno? La questione delle differenze politiche tra Salvini e Di Maio tiene banco dal giorno dopo la nascita del governo e le continue scazzottate che i due vicepremier hanno continuato a rifilarsi dall’inizio dell’anno hanno offerto agli osservatori molte ragioni per mettere in evidenza tutto quello che divide il leader della Lega dal leader del M5s. Eppure, nonostante i venti di crisi, nonostante gli scricchiolii del governo, nonostante gli insulti quotidiani, il fallimento del cambiamento populista meriterebbe di essere analizzato usando meno la chiave della divisione (come ha tentato di fare ieri sul Corriere Dario Franceschini cercando di passare in rassegna i possibili punti di contatto tra i valori del M5s e quelli del Pd) e più la chiave dell’unione. Ciò che divide Salvini e Di Maio è noto. Ciò che non li divide è invece meno noto e se ci si pensa bene è questa la chiave giusta da adottare per non cadere nella tentazione giornalistica di considerare Lega e M5s come due forze politiche fieramente alternative e non invece del tutto complementari.

 

Può piacere o no, ma Lega e M5s sono figli della stessa stagione di Mani pulite (ieri il cappio, oggi l’onestà) e a colpi di giustizialismo, di processi di piazza e di gogne mediatiche hanno contribuito a trasformare il populismo giudiziario in una forma innovativa di populismo politico. Può piacere o no ma Lega e M5s sono figli della stessa sottomissione all’estremismo cigiellino (citofonare a Marco Bentivogli) e tra sostegni trasversali al referendum contro il Jobs Act e demonizzazioni simmetriche della legge Fornero entrambi hanno contribuito a trasformare il populismo sindacale in una forma innovativa di populismo politico. Può piacere o no ma Lega e M5s sono figli della stessa farlocca stagione di battaglie referendarie in difesa della Costituzione (notizie di Gustavo Zagrebelsky?) e non è un caso se il primo incrocio tra Lega e M5s si andò a configurare proprio in occasione del referendum costituzionale del 2016. Può piacere o no, ma Lega e M5s sono figli della stessa oscena stagione di battaglie contro l’euro (hanno raccolto entrambi le firme per uscire dall’euro) e se vogliamo questo è l’unico vero elemento di novità rispetto all’inizio del governo: la Lega continua ad alimentare il sogno di uscire dall’euro e dall’Europa (citofonare Borghi e Bagnai) mentre il M5s forse più per opportunismo che per convinzione (i gilet gialli ancora ringraziano) ha scelto di dare un’apertura di credito al nuovo e non proprio anti sistema presidente della Commissione. In buona parte di queste “non divisioni”, se proprio non riusciamo a chiamarle unioni, vi è però un filo conduttore nemmeno troppo occulto che coincide con una visione simmetrica, estremista e perversa di un elemento chiave dell’identità populista: lo statalismo. Su queste colonne lo hanno notato bene la scorsa settimana Luciano Capone e Alberto Mingardi, in una splendida pagina dedicata al tema dei neoilliberali. La tesi di Capone e Mingardi è corretta e merita di essere approfondita: tra le molte simmetrie che uniscono la Lega e il M5s quella più significativa riguarda un’ideologia politica perversa che ha permesso al governo del cambiamento di essere unito anche nei momenti di difficoltà e quell’ideologia coincide con la lotta sfrenata contro tutto ciò che possa essere definito come neoliberismo.

 

Parlare di politiche neoliberiste in un paese come l’Italia – in cui, come ricorda Alberto Mingardi nel suo libro “La verità, vi prego, sul neoliberismo”, la spesa pubblica sfiora la metà del pil (48,9 per cento), in cui la pressione fiscale sfiora il 43 per cento del pil, in cui sono in vigore oltre 250 mila leggi, in cui esistono almeno ottomila società a partecipazione pubblica, in cui i servizi pubblici locali sono affidati senza gara a società cosiddette in house, in cui per affittare un tuo appartamento a uno studio professionale invece che a una famiglia hai bisogno di un’autorizzazione, in cui non puoi ristrutturare una soletta o un abbaino nella tua proprietà senza chiedere permesso alle autorità municipali – è una tesi che ha del surreale. Ma è una tesi necessaria da studiare perché ci permette di capire quale spartito i campioni del neo-populismo hanno scelto di seguire per giustificare tutta una serie di passaggi cruciali utili a trasformare una democrazia liberale in una democrazia illiberale. 

 

Un paese malato di neoliberismo è un paese accusato di aver messo in piedi un sistema governato da una giungla economica caratterizzata dall’assenza di regole. Di conseguenza le forze deputate a imprimere un cambiamento nella rotta neoliberista sono forze legittimate a usare la leva e la clava dello stato per restringere il perimetro delle libertà. Vale quando si parla di protezionismo (sì ai dazi di Trump), vale quando si parla di giustizia (sì al populismo penale), vale quando si parla di stato di diritto (sì a maggiori poteri del pm), vale quando si parla di compagnie aeree (sì alla nazionalizzazione di Alitalia), vale quando si parla di Bankitalia (sì all’oro alla patria), vale quando si parla di banche (perché non nazionalizzare Carige), vale quando si parla di migranti (la cultura del sospetto dei pm, e dunque dello stato, non è l’anticamera del khomeinismo, come sosteneva Giovanni Falcone ma è sempre l’anticamera della verità), vale quando si parla di concorrenza (sarebbe poi da commentare lo spasso di un paese che cerca di sabotare Uber, che cerca di fare ostruzionismo a Booking, che denuncia il liberismo selvaggio dietro la liberalizzazione delle licenze taxi e che si candida ad avere in Europa il commissario alla Concorrenza), vale quando si parla di come finanziare riforme identitarie (sì all’aumento della spesa), vale quando si parla di mercato del lavoro (sì a far sentire di più la presenza dello stato tramite maggiori tasse sui contratti a tempo determinato). Ci può essere qualche differenza sull’Europa, ci può essere qualche differenza sull’autonomia, ci può essere qualche differenza sulle infrastrutture ma crisi o non crisi il vero elemento chiave per capire cosa è successo in Italia negli ultimi quindici mesi riguarda le ragioni – tuttora valide – che hanno portato a unirsi in un unico abbraccio Lega e M5s. Il populismo giustizialista, il populismo nazionalista, il populismo statalista, il populismo protezionista, il populismo a debito, il populismo sindacale è un unico mastice che tiene insieme i due partiti di governo. La favola del bipolarismo populista può essere comoda per riempire le pagine dei giornali ma è una favola che meriterebbe di essere inserita nello scrigno delle più nocive bufale italiane. Il problema del governo populista non è ciò che divide Salvini e Di Maio ma è ciò che li unisce e fino a quando l’opinione pubblica italiana continuerà a considerare uno dei due populismi come se fosse un male minore, il populismo continuerà a crescere e continuerà ogni giorno a usare le leve dello stato per rosicchiare un pezzo della nostra libertà.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.