Matteo Salvini (foto LaPresse)

Salvini teme il voto per paura che l'Italia scopra i bluff del suo governo

Claudio Cerasa

Le tasse dovevano scendere ma salgono. La crescita doveva migliorare ma peggiora. Il debito doveva calare ma aumenta. La balla dell’Italia “in difficoltà come gli altri”. Appunti sul nostro tafazzismo (c’entra pure la giustizia)

Tra le caratteristiche più interessanti e forse più inquietanti che convivono all’interno della pazza epoca dell’indifferenza ve n’è una cruciale che riguarda un sentimento che si trova a metà tra l’indolenza e l’irresponsabilità: l’inconfessabile sollievo di avere un governo fuori dal mondo che per fortuna non fa tutto quello che aveva promesso di fare. Il sollievo di avere un governo che doveva bloccare la Tav, ma che non l’ha bloccata, che doveva bloccare il Tap, ma che non l’ha bloccato, che doveva bloccare l’Ilva, ma che non l’ha bloccata, che doveva uscire dall’euro, ma che non è uscito, che doveva sfidare i trattati, ma che non li ha sfidati, che doveva sfondare il deficit, ma che non l’ha sfondato, che non doveva ascoltare i mercati, e che invece li ha ascoltati, che doveva fregarsene delle procedure d’infrazione, e che invece non se n’è fregato, che doveva sabotare la legge Fornero, e che invece l’ha sabotata a metà, si va a sommare poi a un altro fattore interessante che in qualche modo contribuisce a far sembrare il governo populista meno pericoloso di quello che è: l’andamento dell'economia. La crescita è zero, ok, ma che volete che sia: la crescita rallenta in tutta Europa, no? La produzione industriale va giù, ok, ma che volete che sia: la produzione industriale diminuisce anche in Germania, che ci possiamo fare?

  

E ancora: lo spread è alto, ok, ma non avete visto che negli ultimi mesi è sceso, davvero non vi rendete conto che l’instabilità ormai è la nuova stabilità? I due elementi che abbiamo descritto contribuiscono, per ragioni diverse a rafforzare in molti l’idea che il populismo non sia un danno così grave per il nostro paese (il nostro amico Paolo Scaroni, in una bella intervista a Bloomberg ha persino detto che un governo che non fa nulla, per il business, è migliore di uno che fa danni, e su questa tesi varrà la pena tornarci) e che essere eccessivamente critici nei confronti dei sovranisti denota un pregiudizio di fondo non supportato da solidi elementi di realtà. Sulla prima questione, sul fatto cioè che avere un governo che riesce a essere credibile solo quando riesce a non mantenere le promesse, vi abbiamo offerto anche la scorsa settimana sul Foglio alcuni spunti di riflessione, e abbiamo provato a spiegarvi cosa rischia un paese che non si rende conto della differenza che vi può essere tra raggiungere un traguardo andando dritti con la propria macchina e raggiungere lo stesso traguardo urtando a ogni metro sul guardrail e distruggendo la propria carrozzeria (perdita di fiducia).

 

Sul secondo punto invece, sull’indifferenza sull’economia, sull’incapacità dei scendiletto del populismo di dedicare al dramma economico italiano la stessa attenzione dedicata al caso Gozi e al caso Bibbiano, vale invece la pena di soffermarsi un attimo e provare a fotografare lo stato di salute del nostro paese con un’immagine semplice. Immaginate che l’economia sia come una pista di formula 1 e che nelle varie corsie immaginarie ci siano a gareggiare diverse macchine. Ogni macchina ha una sua velocità, un suo punto di forza e un suo punto di debolezza. Ma in alcuni casi particolari può succedere che alle debolezze strutturali delle singole monoposto si aggiunga una debolezza ulteriore, esogena, che dipende da condizioni congiunturali. Se vogliamo restare nella metafora della pista dobbiamo immaginare una serie di macchine che improvvisamente si ritrovano a gareggiare con un forte vento contrario.

 

Oggi, in un certo senso, i paesi più sviluppati e anche quelli meno sviluppati, si ritrovano a dover competere con un forte vento sfavorevole, ovvero con un rallentamento dell’economia globale, ma quando il vento è sfavorevole, e arriva la bufare, le macchine di solito si fermano ai box, lavorano sulla propria aerodinamicità, alleggeriscono in alcuni casi il peso della propria vettura e provano ad affrontare con un carico diverso le condizioni atmosferiche avverse. Se la fase economica che stiamo vivendo oggi è simile a quella appena descritta, possiamo dire che la peculiarità dell’Italia è quella di aver scelto di affrontare un periodo avverso non schivando i problemi ma aumentandoli, caricandosi di pesi ulteriori, rendendo la propria macchina meno affidabile, mettendo alla guida un pilota alticcio incapace di schivare i guai e di prevenire i problemi e arrivando persino a svuotare il suo serbatoio. Quando l’economia rallenta, come insegna la Francia di Emmanuel Macron e di Sandro Gozì, i pochi soldi che si hanno in tasca vanno utilizzati non per redistribuire la torta, e dunque non per politiche assistenzialiste, ma per creare una torta, abbassando le tasse, rendendo il paese più efficiente, rendendo la propria nazione più accogliente. La Francia di Macron ha giocato per un anno con il deficit per abbassare le tasse, ed essere dunque più aerodinamica, come ha fatto in una certa misura anche Donald Trump negli Stati Uniti.

   

L’Italia di Salvini e di Di Maio, oltre che aver aumentato la spesa, ha reso l’Italia un paese meno affidabile (lo spread si è abbassato rispetto allo scorso anno, per merito di Mario Draghi e non di Giuseppe Conte, ma resta sempre tre volte più alto di paesi come la Spagna e come il Portogallo, e come rendimento i titoli a cinque anni restano sempre ai livelli di quelli greci) non ha abbassato le tasse (nel 2019, secondo l’Istat, la pressione fiscale all’interno dell’amministrazione pubblica è risultata del 38 per cento, in aumento di 0,3 punti percentuali rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, e secondo lo stesso def del governo nel 2020 la pressione fiscale generale aumenterà nel 2020 passando dal 42 per cento al 42,7 per cento) e scegliendo di non rinnovare il blocco degli aumenti delle aliquote delle imposte e delle tasse locali ha contribuito a far aumentare in modo significativo anche le tasse locali (secondo l’ultima rilevazione del Servizio Politiche Territoriali della Uil, aggiornata al 26 luglio, le aliquote Imu sono state riviste al rialzo in oltre 215 comuni, tra cui quattro città capoluogo, ovvero Torino, La Spezia, Pordenone e Avellino, l’aumento delle aliquote delle addizionali comunali Irpef è stato registrato in 566 comuni mentre la Tari è stata aumentata in 44 città capoluogo, tra cui Catania, Torino, Genova, Trieste e Napoli).

 

La pesantezza della monoposto italiana dipende da questo ma dipende anche da molto altro. Dipende dall’aumento del debito pubblico (tra il 2014 e il 2017 il debito pubblico è passato da 131,8 per cento a 131,4 per cento, nel 2018 il debito pubblico è arrivato al 132,2 per cento e nel 2019 dovrebbe chiudere a 132,8 per cento). Dipende dalla diminuzione degli investimenti fissi lordi (erano +4,3 per cento nel 2017, sono passati a +3,4 per cento nel 2018, sono arrivati a +0,7 per cento nel 2019). Dipende dall’incertezza creata dall’aver trasformato la normalità (fare o no la tav, fare o no il tap, salvare o no l’Ilva) in un fatto eccezionale. Il risultato di tutto questo non si misura soltanto con lo spread o con la produzione industriale (in giugno la produzione industriale registra un pesante -1,2 per cento rispetto ad un anno fa) ma si misura anche con un altro dato interessante segnalato la scorsa settimana dal servizio bilancio della Camera, che ha registrato il modo in cui si è andato ad evolvere il divario di crescita tra l’Italia e l’area euro: nel 2017 l’area euro cresceva del 30 per cento in più rispetto all’Italia, nel 2018 del 53 per cento in più, nel 2019 del 92 per cento in più.

 

A tutto questo poi vanno aggiunti l’incertezza sul futuro, l’immobilismo del governo, i mai celati istinti anti euro, il panico creato dal modello mini bot, le pazzie sull’oro di Bankitalia e non per ultimo il fatto che un paese che ha bisogno di recuperare fiducia anche sul terreno della giustizia e che non ha trovato nulla di meglio da fare che abolire la prescrizione dal primo gennaio del 2020 è un paese che continua ad appesantire il suo carico, in un momento in cui di fronte al vento sfavorevole occorrerebbe invece essere più leggeri. Ci si chiede spesso per quali ragioni Matteo Salvini non voglia rompere, non voglia lasciare il governo, non voglia capitalizzare il suo consenso e quando si prova a rispondere a questa domanda ci si gira spesso intorno senza arrivare però a quello che forse è il nocciolo della questione: e se Salvini avesse paura di andare a votare perché teme che gli italiani si possano accorgere da un momento all’altro del disastro creato dal suo governo? La domanda è lecita, il sospetto è legittimo e per chi non ama il sovranismo in fondo c’è da essere ottimisti: più Salvini tarderà ad andare a votare e più difficoltà avrà a mostrarsi irresponsabile rispetto ai guai provocati all’Italia dal suo stesso governo.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.