Il treno della crisi
La mozione sulla Tav è una frattura profonda. Salvini alle prese con due spinte. Basterà lo scalpo di Toninelli?
Roma. L’occasione per buttarlo giù, a Matteo Salvini si presentò su un piatto d’argento. Era metà marzo, quando Pd e Forza Italia presentarono al Senato una mozione di sfiducia contro Danilo Toninelli; e a chiedere ai leghisti di dare la spallata al ministro più impopolare della storia recente furono, addirittura, alcuni esponenti di governo del M5s. Gli stessi, per inciso, che oggi, a ridosso di una mozione sulla Tav che investe in modo neanche troppo indiretto lo stesso ministro, sibilano velenosi che “se fosse una persona seria e intelligente si dimetterebbe da solo. Ma non si chiamerebbe Toninelli”. E così, a marzo come ora, il giorno fatale per l’uomo che vagheggia i tunnel nel Brennero, sembra dovere essere sempre il prossimo. “Anche perché – scherza ma non troppo il senatore grillino Mauro Coltorti – il migliore amico di Toninelli è proprio Salvini”.
Provocazione, certo, ma neanche troppo scombiccherata. “Come si spiegherebbe, altrimenti, che da oltre due mesi lo ha lasciato come padrone assoluto del Mit, rifiutandosi di nominare nuovi sottosegretari dopo le dimissioni di Siri ed Rixi?”, prosegue Coltorti, presidente della commissione Trasporti e che di Toninelli è stato a lungo considerato come un possibile sostituto. In effetti, qualcosa non torna. Certo, la scelta presa da Salvini a marzo, rifiutando di appoggiare le mozioni dell’opposizione intestandosi l’impallinamento di un ministro espresso dal partito alleato, rispondeva a logiche di tattica politica. E tuttavia, per uno di quegli strani paradossi tipici dell’era gialloverde, oggi la Lega si ritroverà proprio a dover votare, insieme alle opposizioni, contro l’atto che Toninelli ha deciso di intestarsi: quel rifiuto, un po’ furbetto e un po’ patetico, ad avallare la realizzazione della Tav benedetta perfino dal suo stesso premier, Giuseppe Conte.
Che Toninelli sia inadeguato al ruolo che gli è stato assegnato, non c’è leghista che non lo affermi. “Magari la bocciatura della mozione di domani servirà a convincerlo a dimettersi”, diceva ieri il capogruppo leghista al Senato, Massimiliano Romeo. Eppure Salvini, a chiedere espressamente la testa del ministro dei Trasporti, esita: forse per paura che nel risiko del rimpasto che s’innescherebbe perderebbe peso la sua perenne minaccia di far saltare tutto, forse per non apparire avido di poltrone e prebende. O forse le cose stanno come dice l’altro capogruppo leghista, Riccardo Molinari, ai colleghi deputati che lo interrogano: “Finché non è Di Maio a far fuori Toninelli, perché dovremmo essere noi? Per noi, lui, è consenso elettorale”.
E qui allora si spiega la strana riluttanza di Salvini a pretendere la rimozione del grillino. Con Toninelli al Mit (così come con Di Maio al Mise e la Trenta alla Difesa), il leader della Lega ha un comodo alibi, un capro espiatorio per giustificare l’immobilismo del governo sui cantieri, le infrastrutture, le commesse e gli appalti. A tutto a vantaggio della Lega, ovviamente, che si accredita come l’antidoto a quella paralisi di cui in realtà è corresponsabile. E pazienza se, nel frattempo, il paese è fermo. Perfino la leghista Lombardia, dopo oltre un anno dall’insediamento del governo più filoleghista della storia, non ha visto realizzato neppure un metro di nuove infrastrutture. “Una buona idea applicata in ritardo non è più una buona idea”, ha detto ieri Salvini, con l’aria di chi voglia strigliare gli alleati di governo. E forse lo diceva con rammarico, sapendo che ormai, chiedere la testa di Toninelli, è già tardi. Ed è comunque il minimo che possa fare, sempre che non si decida, fuori tempo massimo, a fare i conti fino in fondo con l’ideologia del No: che non è solo quella di Toninelli, ma è quella dell’intero M5s con cui Salvini potrebbe magari, fuori tempo massimo, decidere di non avere più nulla a che fare.