Matteo Salvini (foto LaPresse)

Perché il futuro di Salvini dipende dal patto con Mattarella

Valerio Valentini

Il leader leghista prende atto che il governo non c’è più ma tra lui e le elezioni c’è un problema “tecnico” da risolvere

Roma. Alle undici di mattina, quando ancora non è chiaro che piega prenderà la giornata, William De Vecchis, leghista di Fiumicino, entra nella buvette del Senato esibendo le sue chat. “Guardate”, dice. E mostra il messaggio che, poche ore prima, gli ha inviato Francesco Zicchieri, coordinatore del Carroccio nel Lazio: “Oggi Matteo apre la crisi”. Pochi minuti più tardi, il viceministro all’Economia Massimo Garavaglia – che è appena intervenuto in Aula per esprimere un irrituale parere “a nome della Lega” dai banchi del governo, invitando “a votare a favore della Tav e contro chi blocca il Paese” – davanti a un caffè se la ride, sardonico, quando gli si chiede delle conseguenze di questo scontro: “E’ il governo del cambiamento, qualcosa deve cambiare”. E nel dirlo, però, sembra quasi egli stesso ridimensionare la portata delle minacce, e non a caso dopo di lui nella Sala Garibaldi compare Claudio Durigon, sottosegretario al Lavoro, che sibila: “La crisi? Più che come aprirla, badiamo a come la si chiuderà”. Primi segnali di una certa cautela, di una spavalderia più ostentata che reale, di una volontà di andare alla guerra, sì, ma con juicio. E il perché lo si capisce di lì a poco, quando i fumi del dibattito d’Aula vanno diradandosi nei corridoi di Palazzo Madama, e tra i leghisti cominciano a filtrare i dubbi sulle possibili conseguenze di un gesto estremo: e tutte quelle incertezze gravitano intorno al Quirinale. Al punto che perfino esponenti di governo del Carroccio iniziano a domandare ai cronisti: “Al Colle che aria tira?”. Un’aria di strana tranquillità, a dire il vero: quella di chi, nel pieno rispetto della grammatica costituzionale, resta pronto a tutto e per questo tiene l’agenda libera per i prossimi giorni, ma al contempo attende atti formali, prima di agire di conseguenza. Salvini non si fida, di Sergio Mattarella: resta perplesso sulla reale intenzione del presidente della Repubblica di concedere il voto anticipato, senza magari esperire altre strade, come quella di un governo di transizione, che non si sa mai dove potrebbero portare. I suoi, estenuati dalla convivenza coi grillini, lo incalzano: “Matteo, ora o mai più”. Ma lui tentenna, indugia, spera semmai che Di Maio creda al bluff, e offra lui per primo un rimpasto, una revisione del contratto di governo, insomma quella che Pier Ferdinando Casini chiama “l’umiliazione finale” del M5s.

 

Ma i grillini la fiutano, la paura di Salvini sulle possibili contromosse del Quirinale, e a loro volta si accertano che il capo della Lega non salga al Colle nel pomeriggio. A quel punto, sembrano quasi rintanarsi nel loro subbuglio, con due riunioni dei gruppi parlamentari convocate nel pomeriggio. “La cosa più probabile è un rimpasto”, dice Gianluigi Paragone. Ma Di Maio ha la forza per gestirlo? “Per lui è una prova di maturità”.

 

Il tutto, però, continuando a scrutare gli umori del Colle. Da dove, forse, si è innescata la miccia della crisi. Il riferimento è alla convinzione che avrebbe maturato il capo dello stato circa la necessità di portare a pieno compimento la riforma costituzionale sul taglio dei numeri dei parlamentari. Verrà approvata a settembre alla Camera, e potrebbero volerci almeno sei mesi, poi, prima che entri pienamente in vigore. “Quando hanno capito che così si chiudeva la finestra di marzo 2020, i leghisti si sono agitati”, dice uno stranamente serafico Stefano Patuanelli, capogruppo del M5s al Senato. D’altronde, i tempi della crisi sono proprio quelli da cui dipende la scelta di Salvini. Quando era salito al Colle il 18 luglio, Giorgetti aveva tratto la convinzione di aver guadagnato una decina di giorni. “Ma entro fine luglio bisogna rompere”. Per questo martedì, come diffidando della possibilità reale di una crisi, aveva preso l’aereo ed era tornato nella sua Cazzago. Perché ogni giorno che passa, la via che porta verso un voto anticipato il 13 di ottobre, si fa più stretta. E potrebbe chiudersi definitivamente se, impaludatosi nei tatticismi, e magari temendo la trappola di un accordo sottobanco, alla fine Salvini si accontentasse di chiedere un rimpasto. Con l’obiettivo non di nuove elezioni, ma di un governo finto nuovo: un Conte bis senza Toninelli e senza Trenta, da mandare alla Camera la prossima settimana per ottenere la fiducia.

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